Non ci sono nato. Con le notifiche intendo. E con quell’imperativo silenzioso che ti spinge a controllare il telefono per messaggi, social, e-mail, lavoro, svago, informazioni, prenotazioni, acquisti… E ancora notifiche, notifiche, notifiche.
Ma quando è cominciato tutto?Era l’autunno del 2009. A casa di amici mi pavoneggiavo con le e-mail sempre a portata di mano, grazie al mio fiammante BlackBerry Curve 8520 — quello col tastierino qwerty, per intenderci.
“Io le ricevo con la notifica push, mica devo andarle a scaricare...” dicevo, ignaro del piano inclinato su cui già mi ero adagiato. E su cui, lentamente, cominciavo a scivolare. Come una pelle d’orso. Morta.
Pochi mesi dopo, mio padre — più tecnologico di me, da sempre — mi parlava entusiasta di un’app che permetteva di messaggiare gratis con qualsiasi smartphone. Non solo tra quelli che avevano tanti tastini e il logo con la mora.
Il mese successivo, sul mio telefono c’erano le app di Facebook e Twitter che bippavano ogni due per tre.
Bevevo il caffè, ma avevo smesso di parlare col barista e con i soliti volti familiari.
Ero già disconnesso, rapito dallo scrolling compulsivo.
Era una novità. E io non facevo nulla per fermarla.
Anzi, mi sentivo moderno, aggiornato, in linea coi tempi, figo.
Ma anche… stanco.
E sotto sotto lo sapevo: qualcosa stonava.
Sono passati quasi quindici anni, ma quella sensazione di stress, di sovraccarico di informazioni, è ancora lì. Viva.
E il mio cervello si sentiva come un filtro sporco.
Non è mai passata.
Ho solo imparato a conviverci.
Ho fatto l’abitudine alla sovrastimolazione.
A contenere un filtro sporco, senza mai chiedermi davvero come pulirlo. O cambiarlo.
Non ti dico di spegnere tutto da un giorno all’altro, come ho fatto io (anche se, lo ammetto, è stato liberante).
Ma non ti capita mai, ogni tanto, di sentire il bisogno di una vacanza da quella cascata costante di bit che ti piove nella testa, ogni singolo giorno?
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