Ne ho avvistato uno, stamattina presto, seduto in un bar davanti a un caffè fumante.
Relativamente giovane - sui trentacinque, quarant'anni - con sguardo sinceramente interessato, un uomo leggeva un giornale cartaceo.
Navigava con gli occhi tra colonne e fondo pagina con sguardo attento e calma attenzione. Ogni tanto si soffermava un po' su un articolo, per indugiare più a lungo su un altro che gli appariva più interessante.
Ed era in quel momento che quella schietta curiosità, sembrava essere del tutto appagata.
Il paragone con gli sguardi imbambolati di tutte le persone che gli stavano attorno mi è venuto spontaneo.
Attorno a lui, la consueta processione mattutina di corpi presenti e menti altrove. Tutti chini, come piegati da un peso invisibile: quello dello schermo.
Il pollice che scorre, l’indice che tocca, la fronte che si piega in un’espressione neutra. Nessuna sorpresa, solo un flusso di immagini che passa e si dissolve prima ancora di essere compreso. E nessuno sguardo soddisfatto come quello del lettore che osservavo.
Questi, sembrava appartenere a un'altra dimensione, più felice — o forse semplicemente a un’altra idea di attenzione. Leggeva per capire, non per farsi trascinare. Non consumava notizie: le masticava. Ogni riga gli chiedeva tempo, e lui glielo concedeva.
Mi sono chiesto quando abbiamo smesso di leggere per davvero. Quando la rapidità ha preso il posto della profondità, e l’informazione è diventata rumore di fondo. Ci diciamo “connessi”, ma sembriamo sempre più isolati: ognuno dentro il proprio schermo, convinto di osservare il mondo, mentre in realtà ne vede solo il riflesso limitato e filtrato da un algoritmo. Che ci guadagna...
Lui, invece, con il suo giornale cartaceo pareva avere un contatto più autentico con la realtà. Non era solo un gesto nostalgico — era un atto di resistenza, di esistenza.
In una folla di dita che scorrono tra schermi accesi e occhi spenti, lui era la felice anomalia che leggeva, capiva, pensava.