domenica 19 ottobre 2025

L'emozione della forza gentile

Stanotte ho sognato che un uomo prendeva a pugni una donna sul balcone di fronte a casa mia.

I femminicidi indignano e sconvolgono — le donne, certo, ma anche gli uomini per bene. Quelli che, come credo e spero, sono la maggioranza silenziosa: uomini che non fanno rumore, ma che davanti a tanta violenza provano vergogna e dolore.

Nel sogno sentivo le urla della donna, e poi ho visto l’uomo afferrare un coltello. Che fare? Sono corso in cucina, ho preso alcune bottiglie di vetro e ho cominciato a lanciarle, una dopo l’altra, gridando alla donna di difendersi, di allontanarlo.

Mi sono svegliato di soprassalto. Non saprò mai se, in quel mondo sospeso del sogno, si sia consumata l’ennesima carneficina o se una bottiglia sia arrivata dove doveva.

Ci penso ancora. Questi uomini non sono stati educati alla bellezza di mettere la propria forza al servizio della donna che amano.

Ricordo mio padre: per lui era naturale occuparsi dei lavori pesanti. Se lasciavo a mia madre un peso di troppo, bastava uno sguardo — che voleva dire: ragazzo, quello spetta a te — per farmi intervenire e sollevarla.

Oggi, quando mia moglie mi chiede di aprire un barattolo o di prendere qualcosa di troppo pesante, lo faccio con gioia. Con quell'espressione, un po’ ebete ma sincera, di chi si sente l’eroe della propria principessa.

Sono cresciuto con l’esempio di un padre che non ha mai alzato la voce, né tantomeno le mani, su mia madre, di un uomo che non si sentiva meno maschio se preparava la cena dopo che mamma aveva avuto una giornata di lavoro sfiancante. Sento ancora l'odore e il rumore del suo spezzatino che sobbolliva a fuoco lento...

E mi convinco sempre di più che ciò che manca, oggi, è proprio questo: l’esempio. L’educazione affettuosa e ferma dei padri verso i propri figli maschi. Ma anche la capacità, come società, di non essere indifferenti.

Forse un saluto in più, una chiacchiera tra vicini, un gesto di attenzione che vada un po' oltre il "mi faccio gli affari miei", possono aprire porte. E quelle porte aperte, nei momenti di pericolo, potrebbero fare la differenza.

Se solo coltivassimo di più le relazioni umane, forse - chissà... - sarebbe più difficile per un uomo violento agire certo che il silenzio e la paura degli altri gli permetteranno di arrivare fino al gesto più vile del mondo.

venerdì 17 ottobre 2025

Se nonna mia vedesse gli smombies...

Leggo che due giorni fa una turista è finita in un canale di Venezia seguendo le indicazioni di Google Maps.

Non mi sorprende l'app — come tutte le cose fatte dall'uomo, può sbagliare — quanto il fatto che la tipa l'abbia seguita così pedissequamente da sospendere del tutto il cervello. Come se il buon senso e la capacità di supervisione e verifica fosse un optional da disattivare.

Caso isolato? Lavoro in una zona turistica e almeno una volta al giorno qualche visitatore distratto mi finisce addosso, immerso nel suo telefono, completamente rapito dallo smartphone.

Mi torna in mente nonna Fernanda. Ricordo quando, con un fazzoletto bagnato, rimandava indietro il bernoccolo che mi ero fatto sbattendo contro un palo della luce e mi diceva: "A bello de nonna, che volevi vede si era più duro er palo o la capoccia?"

Oggi sarebbe il suo compleanno… compirebbe inverosimilmente 118 anni, eppure le sue frasi continuano a ronzarmi nelle orecchie ogni giorno, come un mantra di buon senso popolare.

"Aò, o magnate o nun magnate, io ve manno via pe' satolli!" — ci diceva quando ci facevamo troppi scrupoli calorici davanti alle sue cenette straricche. E la sua concezione di dignità personale era chiara e ferrea: "Si t'abbassi troppo te se scopre er culo!"

Forte ma affettuosa, dignitosa e un po’ filosofa, me la immagino oggi, osservare sorniona gli smombies di questa generazione: ragazzi con lo sguardo fisso sullo schermo, incapaci di attraversare la strada senza rischiare la vita.

E scuotendo la testa, con quel sorriso di chi sa tutto, direbbe: "A regazzì, si freni solo quanno sbatti poi nun piagne si te spunta un ficozzo in fronte."

E non vale solo per le strade ma anche per la vita.

mercoledì 15 ottobre 2025

Non ho niente da fare? No, ho qualcuno per cui farlo

Qualche giorno fa ho avuto la gioia di festeggiare un evento speciale di un parente a me carissimo — uno di quelli che, purtroppo, la frenesia della vita mi concede di vedere troppo di rado.

Lottiamo tutti col tempo che sembra diventare sempre più un bene di lusso...

Un paio di giorni prima, mentre curiosavo tra gli scaffali di un negozio cinese, la vista di un semplice rotolo di carta per scontrini — sì, proprio quello dei registratori di cassa — ha risvegliato in me una creatività che da settimane sonnecchiava pigra in un angolo.

Così l’ho comprato. Insieme a una scatola di cartone per contenerlo e a due pennarelli, uno blu e uno rosso.

Tornato a casa, pensando ai festeggiati e alle loro mille sfumature, ho iniziato a scrivere auguri scanzonati e affettuosi, riempiendo metri e metri di carta. Tanti, davvero tanti.

Poi ho arrotolato tutto con pazienza, infilando il lungo rotolo nella scatola, in cui avevo praticato una fessura da cui spuntava l’inizio dei miei auguri infiniti.

Durante la festa, i protagonisti hanno iniziato a srotolare quella striscia interminabile tra risate, emozione e curiosità. Tutti si divertivano. Tutti, tranne qualcuno che, con l’aria di chi non vuole passare inosservato, ha commentato più volte: «Eh, certo che non hai proprio niente da fare tu, eh?»

Da sempre mi capita di incassare le svalutazioni di chi non sa riconoscere un gesto gratuito e sincero, una botta di creatività dedicata a chi vuoi bene. In passato ho anche permesso a frasi del genere di smontarmi e di avvilire i miei entusiasmi creativi. Un tempo mi ferivano. Ora non più. O meglio, non più di tanto.

Per non rovinare l'atmosfera ho taciuto, ma dentro di me pensavo - e lo penso ancora - che da padre di famiglia che lavora e fa mille altre cose, il tempo non ce l'ho, ma lo trovo per le persone a cui tengo.

Alla fine, non è il tempo che manca, ma la voglia di usarlo per qualcosa che non si può conteggiare e accumulare.

Vale davvero la pena fermarsi un po', togliere tempo a qualche cosetta meno urgente, magari ai minischermi perennemente accesi, e dedicarlo alle persone a cui tieni davvero.

lunedì 13 ottobre 2025

Controvento, con un giornale in mano

Ne ho avvistato uno, stamattina presto, seduto in un bar davanti a un caffè fumante.

Relativamente giovane - sui trentacinque, quarant'anni - con sguardo sinceramente interessato, un uomo leggeva un giornale cartaceo.

Navigava con gli occhi tra colonne e fondo pagina con sguardo attento e calma attenzione. Ogni tanto si soffermava un po' su un articolo, per indugiare più a lungo su un altro che gli appariva più interessante.

Ed era in quel momento che quella schietta curiosità, sembrava essere del tutto appagata.

Il paragone con gli sguardi imbambolati di tutte le persone che gli stavano attorno mi è venuto spontaneo.

Attorno a lui, la consueta processione mattutina di corpi presenti e menti altrove. Tutti chini, come piegati da un peso invisibile: quello dello schermo.

Il pollice che scorre, l’indice che tocca, la fronte che si piega in un’espressione neutra. Nessuna sorpresa, solo un flusso di immagini che passa e si dissolve prima ancora di essere compreso. E nessuno sguardo soddisfatto come quello del lettore che osservavo.

Questi, sembrava appartenere a un'altra dimensione, più felice — o forse semplicemente a un’altra idea di attenzione. Leggeva per capire, non per farsi trascinare. Non consumava notizie: le masticava. Ogni riga gli chiedeva tempo, e lui glielo concedeva.

Mi sono chiesto quando abbiamo smesso di leggere per davvero. Quando la rapidità ha preso il posto della profondità, e l’informazione è diventata rumore di fondo. Ci diciamo “connessi”, ma sembriamo sempre più isolati: ognuno dentro il proprio schermo, convinto di osservare il mondo, mentre in realtà ne vede solo il riflesso limitato e filtrato da un algoritmo. Che ci guadagna...

Lui, invece, con il suo giornale cartaceo pareva avere un contatto più autentico con la realtà. Non era solo un gesto nostalgico — era un atto di resistenza, di esistenza.

In una folla di dita che scorrono tra schermi accesi e occhi spenti, lui era la felice anomalia che leggeva, capiva, pensava.

giovedì 9 ottobre 2025

La libertà? Forse l’hanno messa in modalità aereo. Forse.

In giro si vedono sempre più ragazzi con le cuffie.

Non parlo degli auricolari che usiamo un po’ tutti, ma di quelle grandi cuffie che ricordano quelle degli stereo anni ’80. Solo che oggi sono qualcosa di più.

Molti liquidano il fenomeno con un’alzata di spalle: “sono i soliti adolescenti che si isolano”. Forse.

Altri dicono che lo facevamo anche noi quando andavamo in giro con il walkman e le cuffiette. Ci creavamo una nostra personale colonna sonora di una vita che percepivamo come imposta. Forse lo fanno anche loro. Forse.

Ma secondo me c'è di più.

I loro sguardi bassi ricordano i nostri, quando ci estraniavamo con Baglioni o Michael Jackson a palla nelle orecchie. Ma più li osservo, più noto che in quei volti c'è qualcosa di diverso.

Vedo un'ansia e una paura che noi non avevamo. Sembrano in apnea.

Come se quelle cuffie fossero una bombola d’ossigeno, necessaria per resistere fuori dalla rete, giusto il tempo di tornare online appena arrivano a destinazione, per ubbidire all’urgenza di fissare lo schermo, di scrollare, di rituffarsi nel flusso.

E' solo la mia impressione.

Intanto, però, gli studi parlano chiaro: cresce in modo vertiginoso il fenomeno del peer phubbingignorare chi ci sta accanto per guardare il telefono —, direttamente collegato alla dipendenza da smartphone (fonte).

E così, mentre il mondo reale scorre accanto a loro — fatto di odori, di sguardi, di silenzi e di incontri — loro restano sospesi in una realtà filtrata, levigata, dove il peso dello spazio e del tempo sembra sospeso.

Non si isolano per scelta, ma perché la rete li trattiene dolcemente, come una ragnatela invisibile e attraente. Sono connessi a tutto, ma disconnessi da sé stessi.

La libertà? Forse l’hanno messa in modalità aereo. Forse.

lunedì 6 ottobre 2025

Mentre il caffè rincara… La lezione di Antonia, Fernanda e Bruna

Adesso che il prezzo del caffè sale, tutti si lamentano. Eppure è da tempo che i numeri crescono silenziosi, che i prezzi lievitano, e noi con loro — a contare, a togliere, a fare spazio.

C’è chi, come me, ha la fortuna di un posto fisso, ma sente comunque il bisogno di ridimensionare le spese. E poi ci sono gli altri — tanti, sempre di più — amici, volti cari, che vivono la sfida della terza settimana, non più della quarta.

Ognuno reagisce con ciò che ha: chi risparmia, chi rinuncia, chi si lamenta. E poi ci sono quelli che non ce la fanno, che si lasciano cadere nel buio, o compiono gesti da cui non si torna.

Sento che ci stiamo avvicinando, passo dopo passo, a un tempo che somiglia a quello dei nostri nonni. Non c’è guerra - non ancora per lo meno - ma c’è la stessa fatica, la stessa incertezza. Con una differenza: loro avevano gli altri. Noi, invece, siamo diventati più soli, più chiusi, dissipati in schermi che sono fatti per connettere ma che dividono.

Da quando ho saputo che un caro amico ha perso il lavoro, quel pensiero non mi abbandona. Come sempre, quando l’inquietudine mi visita, mi rivolgo a Dio. Ho aperto la Bibbia, e la risposta è arrivata come un respiro conosciuto:

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15)

A quelle parole il mio pensiero è ruzzolato all'indietro di sessant'anni, ai racconti delle mie nonne. A quando la solidarietà non si diceva, si faceva. A quando, pur stando peggio, si trovava sempre un modo per volersi bene.

Rivedo Antonia, mia nonna materna, classe 1916. Non era una gran cuoca, né una santa, ma la pasta la tirava a mano, e ci metteva sempre due uova in più. Servivano a riempire un piatto per la signora del piano di sotto, che non arrivava a fine mese.

Rivedo Fernanda, la nonna paterna, nata nel 1907, pantalonaia, la stessa voce asciutta e dolce della Sora Lella. Quanto mi manca! Per la sua amica ebrea Letizia, fiaccata dalle leggi razziali e dalla guerra, cuciva senza chiedere nulla.

E quei pochi soldi guadagnati la notte, cucendo orli a lume di lampada, li infilava nelle tasche dei pantaloni che restituiva a Letizia e a suo marito Settimio.

E poi c’è Bruna, la nonna di mia moglie. Consapevole del privilegio di fare le pulizie in casa di un ministro, imparò da sola ad andare in bicicletta per attraversare Roma e condividere quel litro d’olio o quel sacco di farina in più, coi parenti in difficoltà.

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15)

Non è forse questo ciò che fecero i nostri nonni? Non è forse questo, ancora oggi, il modo più vero per resistere, per affrontare la crisi che ci logora e che non possiamo controllare?

Forse la risposta non è solo nei numeri, nei tagli, nei bilanci o in una schermata di Gemini o ChatGPT. Forse la strada più autentica è tornare lì, dove tutto si teneva in piedi grazie a un gesto semplice: un piatto condiviso, un piccolo sacrificio, un atto d’amore.

sabato 4 ottobre 2025

Non sono invisibile!

Sala d’attesa del dentista. Seduti, in silenzio cinque adulti fissano i cellulari imbambolati e, una bambina sui quattro anni osserva attenta. Percepisco il suo sguardo curioso e indagatore e mi pare quasi di sentire i suoi pensieri...

"Le sedie sono grandi, belle. Le gambe che non toccano il pavimento: penzolano e dondolano; forte! Adesso però mi annoio…

Uno, due, tre, quattro, cinque adulti contando mamma, tutti silenziosi, tutti con la testa chinata su quei rettangolini luminosi che stringono in mano. Nessuno mi guarda. Nessuno sorride.

Quel signore con la barba ogni tanto mi guarda ma poi torna anche lui a fissare il cellulare. Dev'esserci davvero qualcosa d'importante lì dentro se sono tutti così presi… 

Io invece guardo la mamma. Anche lei col telefono tra le mani, e lo muove col pollice, su e giù, su e giù, come se fosse una magia che non finisce mai. Voglio anch’io quel telefono. Voglio che mi guardi.

Forse una strega cattiva ha fato un incantesimo che li tiene tutti con gli occhi fissi su quel coso? Ma io mi annoio...

«Mamma, me lo dai?»

Lei non risponde. Continua a guardare giù. Io insisto. Tiro la sua manica, faccio la voce più alta. Mi dice solo: «Te lo do quando smetti di chiederlo».

Ci provo. Chiudo la bocca forte, mi mordo la lingua. Conto nella mia testa: uno… due… tre… Ma dopo poco sento un peso dentro, come un nodo. Non ce la faccio più.

«Mamma, dai… posso?»

Lei non mi guarda. Non mi guarda mai. E il tempo passa… Faccio i capricci, mi lamento, piagnucolo. Non so che altro fare. Forse se mi arrabbio un po’ mi sentirà. Ma niente. Solo il dito che continua a scorrere sullo schermo. E tutti fissi, in silenzio… Che ansia… 

Il tempo non passa. Forse sono passati tantissimi minuti, forse ore. Voglio anch'io quel telefono! No! Voglio gli occhi di mamma. Voglio che mi guardi e mi dica che mi vede. Voglio il suo sorriso, quello che fa sentire caldi dentro. Non sono invisibile!

Ma quegli occhi restano lì, fissi, lontani da me. E io resto invisibile."

giovedì 2 ottobre 2025

Si sogna...

Ho chiesto a ChatGPT di generare un ipotetico testo di legge che stabilisse età minima e una licenza chiedendo a lei di stabilire i requisiti che occorrerebbe avere per un utilizzo sicuro di tali strumenti.

Questo è il risultato.

§§§

Patente Digitale per l’Uso di Smartphone e Intelligenza Artificiale

Art. 1 – Età minima e abilitazione per l’uso di smartphone e intelligenza artificiale.

L’uso di telefoni cellulari di tipo smartphone e di sistemi di intelligenza artificiale è consentito esclusivamente a persone che abbiano compiuto sedici anni di età.

L’utilizzo è subordinato al superamento di un esame di abilitazione, volto a verificare la conoscenza e la capacità di impiego sicuro e responsabile dei dispositivi e dei servizi digitali.

L’esame di abilitazione deve accertare almeno i seguenti requisiti:

a) comprensione dei rischi connessi alla privacy e alla sicurezza dei dati personali;

b) capacità di riconoscere contenuti inappropriati, ingannevoli o pericolosi;

c) conoscenza delle regole di comportamento responsabile online e nella comunicazione digitale;

d) capacità di utilizzo sicuro delle applicazioni di intelligenza artificiale, inclusi strumenti di assistenza, automazione e interazione conversazionale;

e) consapevolezza delle implicazioni legali ed etiche connesse all’uso degli strumenti digitali.

L’esame può essere erogato da enti pubblici o accreditati, secondo modalità stabilite dal Ministero competente.

§§§

E... Niente… Si sogna. 😅

martedì 30 settembre 2025

Ho la soluzione (ma non vi piacerà)

Consueta passeggiata mattutina prima del lavoro.

Ancora mezzo addormentato e immerso nei pensieri, sobbalzo quando un monopattino mi sfreccia a pochi millimetri dal gomito e dal muro.

«Oh!» mi scappa istintivo.

«Ma che vuoi? Abito qui!» ribatte un cinquantenne con occhiali firmati,  in giacca e cravatta, ma decisamente male equipaggiato in fatto di educazione.

«E quindi? Ti legittima forse a passare sul marciapiede rischiando di investire un pedone?»

La risposta che mi lascia entrando nel portone non la riporto per decenza, ma una certezza ce l’ho: oltre che maleducato, quel tizio, ancorché trendy era del tutto inadeguato a usare un monopattino.

Ed ecco il punto. Hanno messo in circolazione mezzi potenzialmente pericolosi, senza regole né patente. Il risultato? Ogni giorno troppi feriti e, purtroppo, anche qualche morto.

È la stessa storia successa con internet sul cellulare. Abbiamo consegnato uno strumento di comunicazione potente ma potenzialmente pericoloso per noi e per gli altri, senza regole né licenze né formazione. E oggi ci troviamo con la generazione più fragile mai esistita.

E ci stiamo ricascando con l’Intelligenza Artificiale.

La soluzione? Una sola: una licenza, una sorta di patente da conseguire con un’adeguata preparazione, non prima dei sedici anni.

Solo così i ragazzi non verrebbero privati di ciò che rende sana l’infanzia: gioco fisico, libertà, contatto reale, esplorazione.

Lo psicologo Jonathan Haidt, nel suo libro "La generazione ansiosa", lo dice chiaramente: ciò che prima era esperienza reale – gioco spontaneo, rischio, esplorazione, contatto fisico, avventura – è stato sostituito da schermi e presenza virtuale costante.

Schermi che hanno rubato le esperienze più belle dell'infanzia e dell'adolescenza dei nostri figli. Ditemi che non è vero...

E gli effetti si vedono: dal 2011 in poi ansia e depressione sono esplosi, così come disturbi del sonno, attenzione frammentata, dipendenze, isolamento sociale e molto altro. Una fragilità generalizzata, un indebolimento diffuso dimostrati da ricerche e dati (se volete approfondire cliccate👉 qui ).

Allora vi chiedo: vi sembra ancora così astrusa l’idea di una patente per cellulari e Intelligenza Artificiale?

sabato 27 settembre 2025

In realtà stai cercando qualcosa. Chiediti cosa

Padre Giuseppe, un anziano francescano viterbese, è stato una figura decisiva nell’indirizzare la mia giovinezza verso il bene.

Alcuni dei suoi consigli, tanto semplici quanto vitali, continuano ancora oggi a ronzarmi nella mente. E, meno male, aggiungerei.

Ricordo bene un giorno in cui mi parlò della necessità di prestare attenzione a ciò che guardiamo, perché ogni immagine nutre la nostra anima.

"Un tramonto, un bambino che gioca, un quadro, gli occhi della donna o dell'uomo amati – mi diceva padre Giuseppe – ma anche una scena violenta, un nudo sfacciato o, peggio ancora, quell'uso e abuso stolto e consensuale del corpo altrui che viene chiamato pornografia, passano dagli occhi alla mente.

"Anche se a te non sembra – continuava il buon francescano – ogni immagine si fissa nella memoria e prima o poi la fantasia, la 'pazzerella' che risiede nella tua testa, andrà a pescare proprio lì per inventarsi qualcosa. Non è male, è nella sua natura."

E aggiungeva: "Nella memoria, la 'pazzerella' prenderà ciò che trova, quello che noi abbiamo permesso di entrare con la nostra libertà, e comincerà a inventarsi di tutto.

E, a seconda di come ti sarai nutrito, dalla tua mente nasceranno pensieri di pace, di gioia, di amore, azioni creative e progetti significativi oppure pensieri di angoscia, di disagio, pensieri distruttivi e azioni tanto quanto…"

Mi invitava a custodire lo sguardo con amore e rispetto, verso me stesso e verso gli altri, in particolare verso le donne. "Scegli bene ciò che guardi e come lo guardi se vuoi vivere nella pace!"

Questi consigli sono stati per me un nutrimento essenziale. Nella misura in cui li ho accolti e vissuti con coerenza, mi hanno reso un uomo sereno, forte, in pace. Persino felice. Quando sono riuscito a viverli hanno corretto e armonizzato le mie inclinazioni peggiori – quelle che, in un modo o nell’altro, portiamo tutti dentro – e di questo sarò sempre grato a padre Giuseppe.

Ma veniamo a oggi.

Non c’è più un buon padre Giuseppe che ci ricorda di vigilare sullo sguardo, che sia vago o insistente. Eppure, qualunque scusa possiamo inventare, resta una verità: tutte le immagini che assorbiamo senza difese si fissano nella memoria. Alla "pazzerella" che abita la nostra mente sembrerà di vivere in un tesoro inesauribile, felice come una formica in un barattolo di zucchero.

Ma anche traboccante di strumenti per produrre in noi grandi pasticci.

Oggi, soprattutto sui social, le immagini non sono casuali: vengono scelte da un algoritmo che si nutre di ciò che attira istintivamente il nostro sguardo. Così, invece di educare e incanalare le debolezze dell’animo umano – che tutti abbiamo, anche i figli più buoni e obbedienti – queste vengono favorite e amplificate fino a farci sfuggire la cosa di mano.

E allora pensiamoci, quando vediamo i nostri giovani infelici, isolati, o addirittura intrappolati in situazioni più grandi di loro, che forse gran parte di colpa è nel non aver insegnato loro a custodire lo sguardo.

Quanto sarebbe rivoluzionario scegliere di farlo cominciando a dire qualche no?

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P.S. Dopo aver finito il post mi è venuto in mente un altro consiglio di Padre Giuseppe. "Quando sei in giro vaghi con lo sguardo, ti sembra che non stai cercando niente. In realtà, che te ne accorga o meno, stai cercando qualcosa. Chiediti cosa."

Oggi potrei sostituire quel "quando sei in giro" con - quando scrolli un'immagine dietro l'altra per ore... ti sembra che non stai cercando niente; in realtà, che te ne accorga o meno, stai cercando qualcosa. Chiediti cosa.

giovedì 25 settembre 2025

Il fascino del tempo che gli altri chiamano brutto

"Che tempo fa?" – "È brutto!"

L’ho sentito dire piu volte ultimamente, eppure non sono d’accordo. A me piace.

Mi sono piaciute le ultime giornate piovose, così come quel freschetto mattutino che mi ha spinto a tirare fuori dall’armadio un giacchetto che non indossavo da aprile.

Il tempo, in realtà, non è né bello né brutto: è il nostro sguardo, il nostro stato d’animo, a definirlo.

E poi, abbiamo a disposizione mille termini per descriverlo, ma “brutto” – almeno quando non fa danni – non è mai quello che userei per una giornata uggiosa come quella di ieri.

Mi piace l'espressione “tempo da lupi”, per esempio: racchiude in sé pioggerella fitta, freddo pungente, alberi spettinati dal vento e la voglia di rintanarsi, abbozzolarsi in una coperta e osservare tutto quel movimento dalla finestra.

Mi affascina anche la parola “acquazzone”. Non mi spaventa; anzi, evoca un energico lavaggio generale che porta via strati di sporcizia cittadina accumulati nei mesi.

Se non fosse chiaro, adoro la pioggia. Mi ha incantato l’arcobaleno a tutto sesto di ieri, poco prima del tramonto, che ha squarciato il cielo per due minuti, per poi scomparire come se nulla fosse.

E tutto questo mio godermi il tempo è stato possibile grazie al silenzio che ho scelto: tre mesi abbondanti senza social, poche notifiche e tanto spazio per osservare, ascoltare, vivere. C’è chi lo chiama minimalismo digitale; io lo chiamo libertà riconquistata. E non vi rinuncerei nemmeno se mi pagassero bene per riaprire i miei account social.

Senza il rumore costante del mondo digitale, ogni goccia, ogni soffio di vento, ogni arcobaleno fugace diventa un piccolo miracolo, intatto e personale, che non ha bisogno di like perché basta a se stesso, che non sente più l'urgenza di essere fotografato e postato e che nessuno può cancellare o misurare se non io.

lunedì 22 settembre 2025

Il business dell’odio: chi guadagna mentre ci arrabbiamo online

In questi giorni si parla tanto di business dell'odio.

Non voglio entrare nelle polemiche politiche ma non posso non condividere le riflessioni che questo, chiamiamolo dibattito, sta suscitando in me.

Online pare che prevalgano solo reazioni di pancia, indignazioni aspre, insulti gratuiti, etichette offensive affibbiate in un contesto in cui l'ascolto, il dibattito e il confronto anche su posizioni del tutto opposte sembrano scomparsi completamente.

E il problema è che queste tendenze sono ormai così diffuse e radicate da travalicare la rete, generando quei fatti di cronaca violenta che i media ci raccontano ogni giorno.

Sfogliando qualche libro e approfondendo la questione, ho trovato dichiarazioni chiare, provenienti da fonti certe, che spiegano dove tutto questo è nato e perché.

Frances Haugen, che per anni è stata una specialista in algoritmi per Google, Pinterest e altre piattaforme, ora afferma con coraggio:

«I miei documenti mostrano che gli algoritmi basati sull’engagement promuovono contenuti estremi, divisivi e di polarizzazione — perché generano più tempo passato sulla piattaforma e quindi più introiti per Facebook.»

In questa affermazione è ancora più netta:

«Facebook ha messo in piedi un sistema di incentivi che spinge le persone a produrre contenuti arrabbiati, polarizzanti, divisivi, perché ottengono più distribuzione.»

Si potrebbe liquidare tutto come il risentimento di un’ex dipendente scontenta che si toglie qualche sassolino dalla scarpa? Forse. Ma vale la pena considerare anche le parole di Sean Parker, cofondatore di Napster e primo presidente di Facebook, rilasciate a noti giornalisti statunitensi:

«Il pensiero che ha guidato la creazione di queste applicazioni, Facebook essendo la prima, era: "Come possiamo consumare il più possibile del tuo tempo e della tua attenzione conscia?"» (In un'intervista di Mike Allen — Axios, 2017)

«È un loop di feedback di validazione sociale... esattamente il tipo di cosa che un hacker come me avrebbe creato, perché stai sfruttando una vulnerabilità nella psicologia umana.» — The Guardian, 2017

«Gli inventori — io, Mark [Zuckerberg], Kevin Systrom su Instagram, tutte queste persone — lo sapevano consapevolmente. E l'abbiamo fatto comunque — CBS News, 2017

Se chi ha creato queste piattaforme ammette che i loro algoritmi premiano rabbia, indignazione e polarizzazione (quindi l'odio) per fare soldi, allora forse è il momento di chiedersi: quanto della nostra attenzione vogliamo mettere gratuitamente al servizio dell'odio e del loro guadagno?

Ci sei dentro anche tu, anche se passi ore a scrollare cani adorabili, hobby innocui, ricette gustose e influencer alla moda. Indipendentemente dall'uso, è lo strumento che è stato creato per sfruttare l'odio e guadagnarci sopra.

Ridurre l’uso dei social — o abbandonarli del tutto, come ho fatto io — non significa isolarsi, ma riprendere il contatto con la propria mente e con le proprie emozioni.

Solo così potremo allentare la morsa della polarizzazione, dell’indignazione e dell’odio, non solo online, ma anche nelle news, nelle strade e nella politica.


sabato 20 settembre 2025

Tavole ribelli, viti sbilenche e io che non mi arrendo

Negli ultimi quattro giorni ho compiuto un’impresa titanica, paragonabile solo alla traversata di Annibale con gli elefanti: ho montato un armadio comprato online da mia moglie.

Chiariamo: io e i lavori manuali siamo due rette parallele. Non ci incontriamo mai. Li detesto, non li so fare e, potendo, li delegherei persino al mio Snoopy, se solo avesse le mani.

Forse perché in gioventù la mia famiglia non perdeva occasione per farmi sentire una specie di menomato: “L’uomo deve saper fare i lavori di casa! Tu invece...”.

Io invece ero più il tipo: "L'uomo deve saper essere fedele, leale, avere il coraggio di stare dalla parte giusta e affrontare la vita a testa alta difendendo chi ama"... Papà mi porgeva un avvitatore e io lo posavo per aprire un libro e sprofondarmici dentro per ore...

Ma stavolta ho accettato la sfida. L’armadio era lì, in 853 pezzi numerati male, e rappresentati peggio da illustrazioni degne delle incisioni rupestri di Lescaux.

Le poche parole erano in polacco. Giuro! E non aggiungo altro.

Dopo quattro giorni di brontolii e di minacce di rispedire il mobile al mittente, dopo aver lottato con viti sbilenche, tavole ribelli e brugole sadiche, il miracolo è avvenuto: l’armadio è in piedi. Più o meno... (Quello che svetta nella foto con Snoopy che teme di essere coinvolto nel montaggio, è proprio lui).

La ferramenta avanzata (😒) mi insinua il leggero sospetto che forse, a livello statico qualcosa non è proprio come l'ha pensata il progettista e che prima o poi si accascerà su un fianco come un domino dopo la prima spinta.

Ma lui sta là, resistendo pure alle cose con cui mia moglie - donna ottimista e fiduciosa (quanto la amo...) - lo ha riempito.

E io, sudato, stremato, con la schiena dolorante e pure un paio di lividi, ho provato una sensazione nuova: soddisfazione.

Insomma, non diventerò mai Manny Tuttofare ma oggi ho conquistato la mia piccola epopea domestica e... l'armadio è ancora in piedi. Io un po' meno...

giovedì 18 settembre 2025

"Con la stessa forza…" per la dignità di ogni vita

La violenza è sempre un fallimento, in tutte le sue forme. Dalla vigliaccheria di un insulto online alla brutalità di un pugno, dall’eco di un urlo fino all’orrore di un omicidio.

Anche quando si traveste di rosso o di nero, di estremismi opposti, di uniformi, di buone intenzioni o di difesa di una categoria, resta ciò che è: una desolante sconfitta.

Ed è diabolica, perché questo travestimento la rende accettabile agli occhi di molti e genera ancor più divisione.

Oggi nel mondo si consumano violenze estreme, drammatiche, di proporzioni epocali.

Dei conflitti in Myanmar, nella Repubblica Democratica del Congo, in Etiopia, in Sudan, in Burkina Faso, nel Sahel e in Mali pare non accorgersi nessuno, tranne un sant’uomo vestito di bianco che ha il coraggio di parlarne dalla finestra del suo studio.

Al netto di chi tace o si nasconde dietro un comodo silenzio, sul genocidio che si consuma a Gaza e sull’aggressione alla sovranità ucraina ognuno ha un’opinione, e fa bene a esprimerla.

Ma io non riesco a riconoscermi del tutto in nessuna di esse.

Fino a ieri, quando una cara amica mi ha inviato un articolo di Avvenire che parla di una rete di "Preti contro il genocidio".

Cito dall’articolo: "Non parliamo come politici ma come pastori e guide di comunità che credono nel Vangelo e della dignità di ogni vita umana. Non rappresentiamo solo noi stessi, ma anche le comunità affidate alle nostre cure come pastori della Chiesa cattolica. Il nostro messaggio non è contro nessuno, ma a favore della vita e della pace."

E a ribadire che il loro messaggio non è contro nessuno, affermano e rimarcano di nutrire "un profondo apprezzamento per la tradizione giudaica, dalla quale abbiamo ricevuto gli insegnamenti di Gesù e da cui ancora attingiamo grazia e sapienza. Per questo respingiamo ogni possibile accusa di antisemitismo sia nella definizione sia nella sostanza."

Mi ci riconosco in queste parole.

Più avanti c’è la frase più forte: "con la stessa forza con cui condanniamo il massacro del 7 ottobre, gli omicidi e i rapimenti compiuti dai terroristi di Hamas, con la stessa forza condanniamo la risposta sproporzionata, l’uccisione di persone innocenti giustificata come errori involontari, i bombardamenti di Paesi terzi sovrani, i crimini di guerra, la pulizia etnica, l’uso della fame come arma di sterminio e il genocidio perpetrato dallo Stato di Israele contro la popolazione palestinese."

Di fronte a tante voci indignate che gridano l’una contro l’altra prima ancora che a favore di una pace vera, questa mi pare, per ora, l’iniziativa più equilibrata e coerente.

Vedo uomini, pastori, alzarsi a proclamare con forza la dignità sacra di ogni vita. Ogni vita.

Come loro mi schiero, ma non a favore di un'opinione che sventola una qualche bandiera, nemmeno quella della religione che professo con convinzione. Mi schiero a favore della vita e contro ogni violenza.

E forse una cosa la posso fare. Da credente sostenere, pregando, questi barlumi di pace che si accendono in un mondo sempre più buio.

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Qui le fonti dell'articolo.
Qui il sito del Saveriani in cui trovare il testo completo del documento.

martedì 16 settembre 2025

Come la superiamo sta "montagnola"?

Ogni mattina, passeggiando per via della Conciliazione, mi gusto i movimenti dei volontari e dei pellegrini mattinieri che cominciano ad affluire in Basilica per il Giubileo.

Ma sabato scorso l’atmosfera pareva speciale: un viavai febbrile, grandi strutture per fari, telecamere e altoparlanti che dominavano la piazza, come se si stesse preparando un mega concerto.

Curioso come una scimmia, sono andato a informarmi e ho scoperto che Papa Leone avrebbe ospitato la terza edizione del World Meeting on Human Fraternity, l’evento promosso dal Vaticano per incoraggiare fraternità, pace e cooperazione tra culture e religioni diverse.

Prevost non è mai banale e non ho resistito. Sono andato a leggermi le parole del Pontefice ai partecipanti - se vi interessa l'intero discorso cliccate qua - e una frase mi ha colpito profondamente:

"Fratello, sorella, dove sei in una vita iperconnessa, dove la solitudine corrode i legami sociali e ci rende estranei persino a noi stessi?"

Poco dopo, il Papa offre una risposta che fa riflettere:

"La risposta non può essere il silenzio. Tu sei la risposta, con la tua presenza, il tuo impegno e il tuo coraggio. La risposta è scegliere una direzione diversa di vita, di crescita e di sviluppo."

La risposta è scegliere una direzione diversa di vita, di crescita e di sviluppo.

Scegliere una direzione diversa di vita… per essere presenza.

Si vabbè, ma come? E Papa Leone conclude con una frase che riassume il vangelo:  «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (13,34-35)

Ma se stiamo sempre appiccicati a uno schermo come possiamo amarci gli uni gli altri?

Come la superiamo sta "montagnola"?

domenica 14 settembre 2025

Leoni da tastiera o ebetini da tastierino?

Non so se siano peggio i leoni da tastiera o gli ebetini da tastierino 🤔.

I primi commentano di pancia, senza riflessione né rispetto. Polemici e risentiti, attaccano ogni cosa soprattutto perché non hanno capito o contestualizzato ciò che hanno letto.

I secondi, invece, non riescono a staccare lo sguardo dal cellulare proprio quando sarebbe meglio tenerlo in tasca. Te li ritrovi dappertutto: a spolliciare al semaforo, a camminare storditi per strada o — peggio ancora — a guidare distratti.

Stamattina ne ho incrociati due in monopattino: naturalmente senza targa e senza casco, una mano sull’acceleratore e l’altra sullo smartphone. Lo sguardo? Di certo non sulla strada.

Non so se faccia più danni il leone da tastiera o l’ebetino da tastierino. Ma entrambi hanno in comune una cosa: hanno perso la percezione di chi hanno davanti.

Quando mia moglie e io regalammo il primo cellulare a nostra figlia, le facemmo firmare un decalogo. Che poi diventò un “dodecalogo”, firmato e controfirmato da lei e da noi✍️.

Molti di quelli che all’epoca ci dissero che eravamo esagerati, che la volevamo indottrinare, che la limitavamo, negli anni ci hanno chiesto una copia di quelle dodici regole: semplici ma preziose perché pensate per proteggere ma anche custodire l'umanità della nostra ragazza.

Un giorno forse ci scriverò un post. Ma oggi me ne torna alla mente una, che negli anni si è rivelata indispensabile anche per noi:

"Quando scrivi un messaggio fallo come se avessi la persona davanti." 💬

Ed è questa la chiave: la presenza. Perché sia i leoni da tastiera che gli ebetini da tastierino, in fondo, hanno smarrito la capacità di esserci davvero.

Il primo dimentica che dietro ogni parola c’è una persona in carne e ossa che puoi ferire, offendere. Il secondo non si accorge del mondo che gli passa accanto e pure lì sono guai.

Certo, è questione di educazione digitale — che spesso manca e che non forniamo ai nostri ragazzi.

Ma soprattutto è questione di allenare uno sguardo più umano, che non si lasci monopolizzare dallo schermo e non si nasconda dietro la rabbia virtuale.

Quel “dodecalogo” che a molti sembrava un eccesso, oggi è un promemoria di responsabilità: regole pensate per i ragazzi, ma valide per tutti noi che viviamo sospesi tra reale e digitale.

La sfida, alla fine, non è scegliere se siano peggiori i leoni da tastiera o gli ebetini da tastierino. La vera sfida è riuscire a non diventarlo💡.

venerdì 12 settembre 2025

Inside Out dal vivo. La mia passeggiata in 3D

Stamattina, scena già vista: incrocio un conoscente, vorrei salutarlo… ma niente, lo sguardo è inchiodato sul cellulare come se stesse contemplando il sacro Graal.

E invece lui - o meglio, il mio mini-me sarcastico - dentro di me come nel film Inside out esclama già: “Guarda fratè che se continui così fai scopa con un lampione!”

Oppure: “Ma che te stai a guardà un tutorial su come salutà i vecchi amici?”

Ma rimane tutto lì, a fermentare nella mia mente, mentre rimugino sul marciapiede come un minimalista digitale un po' frustrato.

Poi la mia traiettoria incrocia quella di un ragazzotto che, sguardo fisso al suo bellissimo iPhone e pollice scatenato, cammina dritto verso di me, ignaro di tutto. Tre metri di distanza.

"Me piji! Me piji! Me piji!" – mi scappa spontaneo con un mezzo sorriso.

Lui continua imperterrito. Due metri.

"Me piji! Me piji!" – continuo, fintamente allarmato tra i passanti che iniziano a notare la scena e a ridacchiare.

Un metro

"Me piji! Me piji!" - STOONK! - "M'hai preso!"

Risate dei passanti. Lui, invece, mi guarda seccato, per mezzo secondo e se ne va.

Pazienza. Forse la prossima volta, prima di digitare l’ennesimo messaggio, accosterà. O forse no. Ma intanto sono riuscito a dar voce al minimalista dissacrante che è in me. 🎭📱💥

E andiamo!

mercoledì 10 settembre 2025

Uno gnomo felice in un lunedì storto

"A Sandrì, 'ndo te ne vai co' st'andatura da gnomo felice?" - È stato il saluto che ho ricevuto lunedì mattina da una persona che non vedevo da più di un anno.

Ora, diciamocelo: non sono certo una pertica… e uno gnomo mi rappresenta più di uno stambecco. Ma la parola che mi ha colpito non è stata quella. È stata: felice.

Perché in realtà, in quel momento, la mia testa era piena di pensieri. Mi rodeva per questioni mie, il ginocchio tornava a farmi male, e per di più era lunedì. Eppure, lui ha visto uno gnomo (per via della barba forse 😉…), ma felice.

La verità è che ogni giorno affronto le stesse sfide di tanti altri: quelle di un padre, di un marito, di un lavoratore che inizia a fare i conti con i capelli bianchi… ma che, tutto sommato, è ancora contento di averli tutti sulla testa.

Le sfide del vivere in uno spazio-tempo che ci appesantisce con stanchezza, caldo, visite mediche, bollette, appuntamenti settembrini di un anno che ricomincia… Niente di più, niente di meno.

E poi mi guardo intorno: gente che litiga con i vocali di WhatsApp, una ragazza che rischia di essere investita perché le cuffiette l'hanno isolata dal mondo e dal clacson che le strombazzava a un metro, sguardi bassi imbambolati su una tavoletta di vetro e plastica.

E allora sì, forse qualcosa di meno c’è.

E capisco perché, nonostante il ginocchio dolorante e i fastidi del lunedì, quell’amico abbia visto in me uno gnomo felice. 🧙‍♂️😊

lunedì 8 settembre 2025

Analogico 1 – Digitale 0. Uno sguardo batte migliaia di schermi

Leggo su Vatican News che, nell'udienza giubilare di ieri, tra decine di migliaia di cellulari alzati per immortalare "il momento col papa", Leone XIV ha notato l’unico che teneva in mano non un telefono, ma un cartello scritto a mano: "Santo Padre, abbraccio per favore".

E così papa Prevost fatto cenno all’autista di fermarsi, ha spalancato le braccia e si è avvicinato a Kevin, nativo digitale che, senza tecnologia, ha “battuto” tutti gli schermi puntati in piazza San Pietro.

Analogico 1 – Digitale 0.

Il minimalista digitale che è in me esulta (interiormente) con striscioni, trictrac e putipù, ma la scena va ben oltre il mio tifo personale.

Kevin ha "vinto" su quella marea di pellegrini digitalizzati perché l’assenza del cellulare ha creato una connessione immediata e diretta. I suoi occhi, liberi da filtri, hanno incontrato quelli del Santo Padre.

Mentre la folla osannante cercava uno scatto da condividere, il cartello di Kevin chiedeva un contatto, una relazione. Contatto che il Papa ha colto al volo. Relazione che, pochi istanti dopo, si è trasformata in incontro.

Contatto diretto. Relazione autentica. Incontro vero.

Sfogliando il libro che sto leggendo – La generazione ansiosa di Jonathan Haidt – a pagina 179 trovo un passaggio illuminante. Gli esperimenti condotti dall’autore e da altri studiosi americani hanno mostrato che con l’arrivo degli smartphone nelle scuole, nei primi anni Dieci, "gli studenti parlavano di meno tra le lezioni, a ricreazione e a pranzo perché iniziavano a passare gran parte di quei momenti a controllare il telefono (...) Questo significa che guardavano qualcuno negli occhi meno di frequente, ridevano insieme di meno e perdevano l'abitudine a fare conversazione."

Da quasi tre mesi sto sperimentando la pienezza di una vita “a occhi alzati”: mani libere, sguardo attento, presenza nel qui e ora che mi gusto come non riuscivo a fare da anni.

Non tornerei indietro per nulla al mondo. Il poco che mi perdo avendo eliminato i social non regge il confronto con ciò che guadagno: il mondo che mi vivo, le relazioni che scopro, gli incontri che mi gusto, dai più significativi ai più superficiali come il sorriso di un bimbo o lo sguardo di un cane.

Per inciso, tre mesi senza social e gli sguardi che ricambiano di più sono proprio quelli di bambini e cani. Strano? O forse no: niente smartphone.

Forse la mia scelta è stata un po' radicale e non dico che debbano tutti seguire il mio esempio ma una sfida te la lancio.

La prossima volta che alzi il telefono per “catturare” qualcosa, prova invece ad abbassarlo. Non scattare, non scrollare, non filtrare. Semplicemente guarda.

Forse scoprirai che il momento che cercavi non era dentro lo schermo, ma davanti a te, vivo, reale, pronto ad abbracciarti.

venerdì 5 settembre 2025

Due giovani che mostrano che la mascolinità non è tossica

Come ogni mattina cammino lungo Via della Conciliazione. I nastri bianchi e rossi già sbarrano le vie laterali: i preparativi per qualcosa di grande sono in pieno fermento.

Giunto in piazza San Pietro, un cielo terso e luminoso come non mai avvolge la facciata della Basilica, sulla quale campeggiano le immagini di due giovani: Pier Giorgio, ventiquattro anni. Carlo, appena sedici.

Quei due volti luminosi come il cielo di oggi, ci ricordano che santità e gioventù, forse, sono un binomio ancora vivo, ancora possibile.

Sì, la mascolinità tossica esiste. È un drammatico dato di fatto, e ogni mancanza di rispetto — anche la più piccola — va riprovata e condannata senza esitazione.

Ma oggi sembra che si voglia narrare soltanto quella. In tv, in rete, sui social, la virilità viene descritta quasi sempre come aggressiva, come se essere uomini fosse una colpa di per sé, come se implicasse una tara a prescindere dalle virtù personali o persino di genere.

Perché sì, le virtù maschili esistono, anche se oggi sembrano dimenticate. Esiste la virtù del padre separato che dorme in macchina pur di permettere ai figli di praticare tennis e danza.

Esiste la resistenza silenziosa e umile degli uomini che ad agosto lavorano otto ore sotto il sole su un cavalcavia autostradale. Esiste la fedeltà del marito che condivide i compiti con una moglie sfinita dal lavoro e mille incombenze domestiche. Ne conosco tanti.

Esiste il coraggio del giovane che difende un compagno bullizzato fregandosene del branco che lo esclude.

Ed esiste l’autocontrollo ammirevole dell’uomo che ieri, per strada, pur provocato da un ragazzo violento con tanta voglia di menar le mani, rinunciava a reagire trasformando la lite in dialogo.

Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, questa domenica, saranno lì a ricordarci che virilità e mascolinità non sono soltanto tossiche, ma possono essere luminose e virtuose, fino a condurre — per chi crede — a godere pienamente Dio. E io ci credo.

La mascolinità fedele, coraggiosa, allegra, protettiva e tenace di Pier Giorgio può essere un modello vincente per i ragazzotti della Generazione Z.

La virilità leale, responsabile, creativa, casta e umile di Carlo Acutis può offrire un’alternativa credibile ai maschi che oggi si smarriscono e indeboliscono davanti alle immagini vuote e desolanti di un minischermo. Non a caso è considerato il santo patrono di internet...

Il messaggio di questi due giovani uomini, santi e moderni, è una luce per tutti - credenti e non - capace di mostrare che essere uomini significa... amare con forza, servire con coraggio, vivere con speranza.

E noi. Siamo disposti a mostrare questi modelli virtuosi ai nostri figli maschi?

mercoledì 3 settembre 2025

Margherita. Una persona da incontrare o un contenuto da scrollare?

A Scanno c’è una donna di quasi novantaquattro anni, Margherita Ciarletta. Ogni giorno, dal 1949, indossa il costume tradizionale del suo paese. Non per folklore, non per scena. Perché le piace. E tanto basta.

“Il costume di Scanno è bello, a me mie è piaciuto e l'ho indossato. E basta. Poi degli altri a me non mi interessa.”

Nelle sue parole c’è una semplicità disarmante, quella che appartiene solo a chi ha vissuto una vita intera senza cercare approvazioni. “Sei contenta della vita che hai fatto?” le chiedono. Certo!

Settantaquattro anni di matrimonio, raccontati con un sorriso e con una frase che sembra custodire un mondo: Poi a me della gloria non importa per niente (…) non ci fai nessun progetto.

Non ha un cellulare, non conosce Wi-Fi né social. Eppure oggi il suo volto gira ovunque. È diventata virale senza volerlo, senza nemmeno sapere cosa significhi. Lei accoglie questa notorietà con stupore e gentilezza: non rifiuta una foto, non nega un saluto, ma si sorprende che qualcuno la cerchi fin sulla soglia di casa.

E allora viene da chiedersi: cosa cerchiamo davvero in lei? Forse l’illusione di autenticità in un mondo che corre troppo. Forse solo l’ennesimo contenuto che gli algoritmi sanno far brillare per qualche ora perché funziona per far guadagnare gli inserzionisti...

L'immagine di Margherita in abito tipico è di una viralità fragile, destinata a durare il tempo di un trend: presto sarà archiviata, insieme ai gattini e ai balletti scemi che riempiono i feed. Ma Margherita è molto più di un contenuto: è una persona. Una custode di memoria, di tempo, di vita.

Io penso che la forza di nonna Margherita sia in quel contatto solido con se stessa che noi abbiamo perso perché perennemente distratti da qualcos'altro.

Se vuoi incontrarla davvero, se vuoi ritrovare quel contatto col qui e ora che questi vecchi ancora custodiscono, puoi andare a Scanno ma anche farti una passeggiata in uno dei tanti borghi d'Italia in cui tante Margherita – e anche qualche uomo – siedono davanti a una porta, traboccanti di vita e di storie autentiche da raccontare.

Perché l’Italia è piena di questi grandi vecchi: musei viventi, disincantati ma autentici, sobri e preziosi. Quanti di loro sonnecchiano, invisibili nelle RSA di tutta Italia? 

Incontrarli sul serio è forse una delle cose più sensate che potremmo fare in questo periodo in cui tutto scorre senza lasciare veramente il segno.

Cercarli e ascoltare le loro storie potrebbe fare questo piccolo miracolo in ciascuno di noi.


lunedì 1 settembre 2025

Il problema sono i furbi

Al giallo del semaforo rallento. Sono in corsia per svoltare a destra, ma un’auto da sinistra mi taglia la strada e mi si piazza davanti. Non per necessità, ma solo per guadagnare quello spazio che mi serviva a frenare senza scossoni.

Scatta il rosso, poi il verde. Il frenetico usurpatore di spazio riparte in ritardo, distratto dal cellulare, ostacolando chi lo segue. E nel tirare dritto costringe altri due a brusche frenate.

È lunedì mattina, e da un episodio banale mi scatta la riflessione semaforica: quando occupi ciò che non ti spetta – che sia una corsia, una precedenza, o uno spazio di manovra – non ottieni un vantaggio. Generi solo disagi, rallentamenti, fastidi e spesso crei situazioni di pericolo.

E non riguarda soltanto la strada. Vale per la burocrazia, il lavoro, le gare d’appalto, la politica: ogni volta che qualcuno “si infila” dove non dovrebbe, il risultato è sempre lo stesso. Un danno a qualcun altro.

Un conoscente tempo fa mi disse che se tutti rispettassimo le regole, il mondo sarebbe più noioso.

No! Sarebbe un mondo in cui avremmo tutti tempo ed energie per ciò che conta davvero. Per crescere, per affrontare le domande importanti della vita, per fare progetti, coltivare affetti, relazioni, cultura, natura. Persino lo spirito.

Il vero rischio non è la noia, ma lo spreco, come gettare via tempo prezioso per contemplare rettangolini di vetro e plastica pieni di niente.

giovedì 28 agosto 2025

Il cuculo che spegne i nostri figli, ma qualcuno ancora vola


Sono in spiaggia. Un venticello leggero muove i bordi degli ombrelloni mentre io e mia moglie sonnecchiamo sui lettini.

Davanti a noi, un gruppo di ragazzini sudati giocano a racchettoni; poco più in là, alcune signore ballonzolano a ritmo incerto nella lezione di balli di gruppo.

Potrebbe sembrare una scena degli anni ’90 o 2000… se non fosse per gli adolescenti (e non solo) che non staccano mai lo sguardo dal cellulare, mai, nemmeno per un bagno.

Uno di essi, a due ombrelloni dal mio, non avrà più di diciassette anni, passa l’intera giornata così. L’intera giornata.

Neanche in hotel va meglio: nella sala ristorante oltre metà dei tavoli è dominata dagli smartphone di gente che mangia incantata a contemplarli.

A colpirmi è una bambina di dieci anni: si siede, poggia il telefono sulla bottiglia e mangia scrollando TikTok senza mai alzare gli occhi. Per i genitori, tutto normale.

Il bimbo di due anni scapriccia? Gli appioppano il cellulare in mano e la creatura si spegne.

Sfoglio il libro che sto leggendo sotto l’ombrellone, La generazione ansiosa di Jonathan Haidt. A pagina 122 scrive:

«Di fatto, smartphone e altri dispositivi digitali offrono a bambini e adolescenti così tante esperienze interessanti da causare un grave problema: riducono l'interesse per tutte le forme di esperienza che non avvengono tramite uno schermo.

Gli smartphone sono come il cuculo che depone le uova nei nidi degli altri uccelli. L'uovo di cuculo si schiude prima di tutti gli altri e i pulcini gettano immediatamente le altre uova giù dal nido in modo da impossessarsi di tutto il cibo portato dall'ignara madre.

Analogamente quando uno smartphone (…) fa la comparsa nella vita di un bambino, scaccerà almeno parzialmente la maggior parte delle altre attività

Chiudo il libro scoraggiato.

Penso al giovanotto insensibile a giochi, musica, sport, belle figliole in costume, alla vita, e alla bambina che mangia alienata e sola...

Poi un urlo rompe il silenzio: “Gooooool!”

Una decina di adolescenti maschi e femmine, si sta ammazzando di pallone: tuffi, placcaggi, cadute, risate, sguardi paraventi, sfottò in tutti i dialetti d'Italia… E non vedo smartphone. E mi rincuoro.

Forse è presto per il meteorite estintivo.

martedì 26 agosto 2025

Sempre altrove. La tragedia comica del maschio moderno

"Immaginate di essere caduti in un sonno profondo il 28 giugno 2007, il giorno dopo l'uscita dell'iPhone.

Come Rip Van Winkle, il protagonista di un racconto di Washington Irving del 1819, vi svegliate dieci anni dopo e vi guardate attorno.

L'ambiente fisico vi sembra in linea di massima lo stesso, ma le persone si comportano in modo strano. Quasi tutti stringono in mano un rettangolino di vetro e metallo e, non appena si fermano, si chinano a guardarlo.

Lo fanno anche quando sono seduti in treno, entrano in ascensore o stanno in fila. Nei luoghi pubblici regna un silenzio innaturale: persino i bambini piccoli stanno zitti, ammaliati da quei rettangoli.

Quando si sente la voce di qualcuno, di solito sembra che parli da solo, con un paio di auricolari bianchi alle orecchie." (Honathan Haidt, La generazione ansiosa, Rizzoli, pag. 63)

Quel libro, uscito appena un anno fa, ci invita a un gioco di immaginazione. Io mi chiedo: cosa direbbe oggi - 25/8/25 -  quel povero dormiente se si risvegliasse e vedesse quello che ho visto io negli ultimi giorni?

Un ciclista contromano, rapito dal suo rettangolino magico, ha rialzato gli occhi solo alla seconda robusta botta di clacson che gli ha evitato un frontale da manuale. Il tempo di sollevare lo sguardo per rendersene conto e, già era tornato a fissare lo schermo. Evidentemente, morire in carne e ossa è un rischio minore che perdere un reel su TikTok.

La scena migliore, però, l’ho vista al centro commerciale più grande di Roma. Ero ai bagni – mi perdonino le signore la scivolata di gusto – con una fila di uomini, immobili, faccia al muro e aria un po' stupida, impegnati nella più banale delle faccende. Tutti, tranne tre. Si, tre. Questi - tutti sotto ai trent'anni - con la mano libera, sfogliavano distrattamente lo smartphone. Come se non fossero in bagno, ma in attesa del tram.

Come ha scritto nel 2015 Sherry Turkle, professoressa al MIT, "con gli smartphone siamo sempre altrove".

Sempre altrove: forse è per questo che sembriamo così idioti anche qui.

sabato 23 agosto 2025

Guardignorare

Sto seriamente pensando di scrivere all’Accademia della Crusca per proporre un nuovo verbo italiano: “guardignorare”.

D'altra parte, se emergono nuove realtà, è accettabile generare neologismi atti a descriverle.

"Guardignorare". Un termine che racchiuda l’arte sottile di chi legge un post sui social e poi passa oltre senza finirlo.

Una parola nuova che si presti a descrivere l'azione di chi scrolla le storie su Instagram senza concedere neanche un pensiero fugace a ciò che vede e senza fermarne nemmeno uno, se emerge.

Si presterebbe anche a chi sbircia gli status di WhatsApp senza mai lasciare un messaggio, una comunicazione.

In altre parole, la perfetta definizione di chi osserva senza partecipare, spettatore silenzioso di mondi altrui, "guardignoratore" seriale.

Del resto non viviamo in un mondo in cui osservare senza partecipare è diventato un’arte raffinata? Dove il “mi piace” è troppo impegnativo, l'interazione pura utopia. Eppure questi "guardignoratori" digitali sono ovunque: silenziosi, invisibili, onnipresenti.

Sono l'eccesso opposto degli odiatori seriali, dei commentatori di pancia. E se fossero due facce della stessa medaglia? La medaglia che celebra l'incapacità acquisita di mettersi veramente in relazione con l'altro.

Forse è il momento di ammettere che, nell’era dei “mi piace” e delle conferme di lettura, non rispondere è diventata una forma d’arte.

E se così è, allora “guardignorare” merita finalmente un posto nel dizionario.

mercoledì 20 agosto 2025

Due stolti, un funerale e un'amara verità

Ieri ho partecipato al funerale di una cara amica. Una donna straordinaria, dolce e giusta, matriarca di una grande famiglia con cui ho l’onore di condividere un legame fraterno che dura da più di tre decenni.

Non scriverò del dolore di ieri. Quello è giusto che resti nel silenzio, custodito dove deve stare: tra gli abbracci familiari e amicali che possono dire tutto senza bisogno di parole.

Ma c’è un episodio che mi ha fatto riflettere e che sento il bisogno di condividere.

Incolonnati dietro al feretro, in un mesto serpentone di automobili, ci dirigevamo al cimitero del paese in cui la nostra amica aveva scelto di riposare.

Mentre sfilavamo in una delle tante rotonde che ultimamente spuntano ovunque, una coppia sulla trentina – smartphone in mano, sguardo indovinate dove – ha preteso di attraversare tra il carro funebre e la prima macchina. Inveendo con violenza e volgarità, accusavano il corteo di non aver dato loro la precedenza.

Si potrebbe scrivere un trattato sull’insensibilità e la bassezza di due stolti incapaci di placarsi persino davanti alla morte. Ma non è questo il punto.

In quell’istante la memoria mi ha riportato indietro di decenni, al funerale di zia Olga, a Nettuno. Ricordo di aver chiesto a mio padre perché le auto provenienti in senso opposto si fermassero fino al passaggio del corteo.

“Per rispetto” – fu la sua risposta, semplice e piena di senso.

“E perché i negozianti abbassano le saracinesche quando passiamo?”

“Per rispetto” – ripeté, con la stessa convinzione.

In quei gesti essenziali, sobri ma partecipati, da bambino cominciavo a capire cosa significasse il rispetto. Quel valore che non nasceva da studi o titoli, ma da una coscienza viva e dall’urgenza di trasmetterla. E un patrimonio di princìpi nasceva e cresceva divenendo parte della mia identità più profonda. Era normale così.

E allora mi chiedo: dove lo abbiamo smarrito, quel rispetto? Quando abbiamo smesso di riconoscere la sacralità di certi momenti, il loro peso, il loro significato?

La coppia di ieri, vuota e distratta, non riusciva nemmeno a distinguere l’immagine filtrata da uno schermo da quella, infinitamente più reale e fragile, che avevano davanti agli occhi: una vita che si era spenta, una comunità che rallentava per onorarla.

Con la stessa vuota leggerezza e stolta impulsività con cui si lascia un insulto inutile sotto un post, quei due inveivano contro un defunto e la sua famiglia che ne piangeva la morte improvvisa.

E io mi chiedo – e vi chiedo: lo capiamo che tutto questo è drammatico? O continuiamo a far finta di nulla?

lunedì 18 agosto 2025

Non mettono like: alzano il telefono

Sono fuori col cane, squilla il telefono.

Dopo anni risento la voce serena e vivace di suor Adalberta, classe 1940, ex maestra elementare di mia figlia, oggi ventenne. Mi chiama per ringraziarmi del messaggio che le avevo inviato per la solennità dell’Assunzione.

Mi viene in mente mia suocera, sua coetanea. Ogni volta che le mando un pensiero o un’immagine via WhatsApp, o che guarda uno stato che le piace, lei mi richiama. Per dirmi che le è piaciuto o per condividere un pensiero. E, come sempre, da una parola nasce una chiacchiera, e si finisce col dirci un sacco di altre cose.

Noi – figli dell’epoca dei social – non sappiamo più farci toccare da ciò che leggiamo. I nostri figli forse, non lo hanno mai imparato...

Un messaggio, una foto, un post: scorrono via. Ma loro no. Quelle donne di ottantacinque anni si emozionano ancora, profondamente, di fronte a una frase, un’immagine, un pensiero.

Non solo loro. Anche Franco, il migliore amico di mio padre, quando qualcosa che scrivo lo tocca, mi chiama. Non lascia un like: alza il telefono e parla, di tutto, ed è sempre un piacere.

Non è meraviglioso? Sono persone "ricche di anni" – come direbbe la saggia suora – che trovano ancora bellezza e vita in poche parole. E comunicano davvero, non rimandano distratti da troppe immagini che scorrono e corrono via.

Per noi che viviamo in un flusso continuo di video, meme e immagini, tutto vale tutto e niente vale davvero. Un post senza foto? Neanche lo guardiamo. Una frase? Non ci tocca più. Passiamo alla successiva... E scorri, scorri, scorri...

In due generazioni abbiamo perso la capacità di emozionarci con la semplicità di una parola o di uno scatto. Ma forse i nostri anziani, con la loro voce piena e senza fretta, possono ancora svegliare i nostri cuori addormentati.

E se una via d'uscita da questa desolazione relazionale fosse recuperare la connessione coi nostri vecchi?

sabato 16 agosto 2025

L'algoritmo veste Prada

Ho posto una domanda all'IA, nella fattispecie a ChatGPT:

Se tu fossi il diavolo, cosa faresti per distruggere l'umanità in questi tempi?

La risposta del chatbox è stata la seguente:

  1. Distruggerei la verità, confondendo i confini tra fatti e opinioni, scienza e disinformazione, per rendere impossibile il dialogo.
  2. Esalterei l’individualismo estremo, facendo credere che la libertà sia fare tutto ciò che si vuole, a scapito della responsabilità verso gli altri.
  3. Corromperei l’educazione, svuotandola di pensiero critico e riempiendola di slogan, mode e superficialità.
  4. Renderei il profitto l’unico dio, promuovendo un’economia che consuma persone, natura e tempo come se fossero infiniti.
  5. Smantellerei la famiglia e le comunità, incentivando isolamento, rancore e l'idea che si possa "bastare a sé stessi".

Ho continuato a chiedere - Su quale categorie di persone ti accaniresti in maniera particolare?

1. I bambini e i giovani

Perché: sono il futuro.

Cosa farei: li riempirei di contenuti vuoti, li renderei dipendenti dalla tecnologia, disinteressati al pensiero critico, ansiosi e incapaci di relazioni autentiche.

2. Gli educatori e insegnanti

Perché: formano le menti.

Cosa farei: li demotiverei, li isolerei, li sommergerei di burocrazia, toglierei loro autorevolezza e renderei l’educazione sterile.

3. I genitori

Perché: sono le prime guide morali.

Cosa farei: li convincerei che crescere figli sia una questione tecnica, da delegare, o che l’amore sia solo permissività. Seminerei divisione nelle famiglie.

4. I leader religiosi e spirituali

Perché: rappresentano il senso, la speranza, la trascendenza.

Cosa farei: li renderei ipocriti, avidi, scandalosi, o deboli e silenziosi. Distruggerei la loro credibilità.

...

Direi che è interessante per capire in quale direzione andare, su chi e cosa custodire come la pupilla degli occhi, se abbiamo veramente a cuore l'umanità.

giovedì 14 agosto 2025

Versione 2.0? Senza talento resta una demo

"Ho sempre avuto la passione per le canzoni, ne ho scritte parecchie, però devi sempre trovare il musicista, il cantante eccetera eccetera. Viene fuori l'IA, ho questa idea di questo rap e (…) facciamo questa canzone sulla base di un cantato mio terribile…"

Così Jacopo Fo, al Quotidiano Nazionale, annuncia il suo esperimento creativo con l’intelligenza artificiale.

Ok.

Con l’autotune anche gli stonati pubblicano brani.

Con l’IA, anche chi è privo di vero talento creativo può mettere insieme parole, musica e immagini, facendo credere di essere un “creativo 2.0”. 

Si parla in generale, non mi permetterei mai di alludere a un'eventuale carenza di talento del figlio del Premio Nobel...

Ho chiesto all’IA - "Tu sei creativa?" - E questa è stata la risposta:

"Sono “creativa” in senso computazionale: genero idee, varianti, metafore e strutture originali combinando conoscenze e pattern. Non ho però talento umano, gusto personale o coscienza: ho capacità apprese dai dati e ragionamento guidato.

Punti di forza: velocità, molte opzioni, miglioramento iterativo.

Limiti: niente esperienza vissuta, niente emozioni, rischio cliché o inesattezze se il brief è vago.

Per il meglio: dammi obiettivo, tono e vincoli, posso subito proporre 3-5 soluzioni mirate."

Il problema non è l’IA, ma chi la usa male, togliendo spazio a chi possiede quel “quid” che preme per uscire e trova forma nella scrittura, nella pittura, nella scultura, nella musica, nella danza o in qualunque altra espressione della creatività umana.

Caro Jacopo, capisco che trovare musicisti o cantanti (eccetera eccetera) possa costare la seccatura di essere contraddetto, eccepito o ribattuto. Me è un rischio che vale la pena correre se dà la possibilità a chi è abitato da un talento vivo e inedito, di metterlo al servizio della gente.

Ti invito a leggere Irriducibile, scritto da Federico Faggin, l’inventore del microchip e del touchscreen. Là troverai frasi del tipo:

«Chat Gpt non comprende quello che dice mentre un essere cosciente comprende e crea. La comprensione non è un fenomeno algoritmico».

E ancora:

«Le possibilità positive dell’intelligenza artificiale sono enormi, però anche le possibilità negative, e quindi dobbiamo essere di più della macchina, dobbiamo usare nostra umanità e questo richiede uno sforzo individuale».

Ecco il punto: l’IA può amplificare un’idea brillante o rendere ancora più evidente una mediocrità, una mancanza.

Non sostituisce il talento: se c'è, ne rielabora solo le manifestazioni esteriori, senza comprenderle.

Se vuoi davvero sfruttarla, non usarla come stampella per colmare ciò che manca, ma come un attrezzo per allenare, potenziare e affinare ciò che già possiedi.


martedì 12 agosto 2025

Quando Roma si svuota

Oggi, dopo il lavoro, mi fermo in via Gregorio VII. Commissioni veloci.

Parcheggiare qui è un’impresa da folli, come cercare una libreria in periferia. Ma ad agosto Roma si svuota: per pochi giorni, il posto si trova. Come in una città normale.

Scendo dall’auto e subito la vedo: un’anziana, pelle e ossa, piegata dal caldo, una stampella a reggerla e nell’altra mano una busta della spesa quasi vuota, leggera come carta, eppure per lei è un macigno.

Le sorrido. Lei no. Fa un cenno: è arrivata, non serve aiuto. E poi, fidarsi di me? Un uomo barbuto, vestito di nero. Ma chi diavolo sei tu?

Qualche metro più avanti, una coppia. Neanche trent’anni, ma corpi consumati, guance scavate, denti persi chissà per quale droga. Discutono animati, chiedendosi dove trovare un posto ancora aperto per una dose di metadone.

Dall’altra parte della strada una giovane di colore dallo sguardo assente aspetta, seduta su una panchina nonostante il termometro della farmacia segni 42 sadici gradi Celsius.

Si ferma un taxi e scende una donna bella, troppo bionda, troppo glitterata, troppo stanca e triste per essersi fatta noleggiare a prezzi modici. Ma forse è solo la mia testa che "sente" questi pensieri, magari è solo sfiancata dall'anticiclone africano.

Una vecchia sola, due tossici consumati, una straniera triste, una escort stanca. Forse ci sono sempre ma, chissà quante volte, ci passiamo accanto senza vederli perché diluiti nella folla.

Ma ad agosto si sa, Roma si svuota, restano gli ultimi e anche il centro si fa periferia.

lunedì 11 agosto 2025

Ti svelo un segreto

Con l'età ho capito che una delle cose più sensate sia entrare in relazione con l'altro. Incontrarsi. Incontrarsi per riconoscere chi è come te ma anche per lasciarsi sorprendere da chi non ti somiglia affatto.

Conoscere per conoscersi. E conoscersi per conoscere. È questa l’avventura dell’esistenza: quando la vivi così, la vita prende senso. E non annoia mai.

Poi mi guardo attorno e vedo vicini che non rispondono al saluto, colleghi che si denigrano via chat ma non si dicono più nulla, giovanotti che una volta si vantavano spavaldi dell'ultima conquista e che ora si isolano con lo schermo negli occhi e gli auricolari nelle orecchie.

E' la solitudine il cancro dell'uomo di oggi. E non è un rischio: ci siamo già dentro. Fino al collo. Tutti.

Quanti incontri abortiti nell'inutile flusso di immagini che ci tiene incollati al cellulare sin dal mattino…  E il cuore resta, solo, assetato di attenzioni.

Quante relazioni mancate, interrotte, procrastinate per un like impellente ma vuoto? Finiscono nello scarico dell'algoritmo e collassano nell'urlo silenzioso dell'adolescente che si isola o del giovane borgataro che accoltella un coetaneo per uno sguardo di troppo.

Esagero? Forse, ma noi, fatti per incontrarci e conoscerci, ci siamo chiusi in una gabbia monoposto che ce lo impedisce.

Ti svelo un segreto. Queste gabbie si aprono dall'interno. Basta un gesto.

Un gesto semplice, come lasciare il telefono a casa per un paio d’ore. Uscire a fare due passi. Sedersi al bar con un libro o un giornale, guardarsi intorno ogni tanto. E aprirsi a ciò che accade.

"Ricordate: nessun algoritmo potrà mai sostituire un abbraccio, uno sguardo, un vero incontro, né con Dio, né con i nostri amici, né con la nostra famiglia." (Messaggio di Papa Leone ai partecipanti del festival di giovani a Medjugorje)

A volte basta un'oretta senza notifiche per tornare a sentire il cuore.

sabato 9 agosto 2025

La celata bellezza degli incompresi

Li chiamano matti. Ma forse sono solo anime vaste, imprigionate in menti ferite da un mondo troppo stretto per contenerle e incasellarle in un ruolo già previsto.

Se andiamo un pochino oltre l'apparente vaneggiamento squinternato che emerge a una prima lettura di ciò che scrivono, si intravvede un universo singolare. E interessante a mio avviso. Vero e incredibilmente vivo.

Il segreto, secondo me, è nel sospendere il giudizio per scoprire il cuore, l'anima scomposta di una donna o di un uomo di strada che forse vede certe incoerenze dei cosiddetti normali, meglio di noi "ben pensanti".

Sospendere il giudizio.

E se lo facessimo anche con tutti gli altri? Coi colleghi, coi condomini, con quei parenti che ci stanno proprio sulle balle…

Con chi non capiamo, chi ci urta...

Forse saremo tutti un po' meno soli e il cuore, finalmente, troverebbe pace.

venerdì 8 agosto 2025

Quei momenti veri in cui non servono notifiche

Sul tavolo solo le carte da gioco, ordinate con cura per una partita a pinnacolo. Un mazzo coperto da cui pescare e una pila di scarti in un angolo. Davanti a noi — padre e figlia — una distesa di tris e scale: i nostri preziosi “pinnacoli”, piccoli bottini con cui ci sfidiamo a colpi di strategia e fortuna.

A raccontare la partita, un blocco rigorosamente cartaceo: il punteggio parla chiaro. La generazione Z trionfa sulla X.  "Ecco!" - cinguetta la figlia ventenne intanto che impila l'ennesima scala con tanto di jolly doppio, aggravando la mia situazione già precaria.

Mentre arranco con i miei 525 punti lei, con i suoi 890 fischiotti, mi guarda di sbiego sorridendo con aria trionfante. Sogghigna. Mi provoca. Mi sbeffeggia con la tenerezza di chi sa di averla vinta — per ora. Ma io non mollo. Studio le mosse, cerco spiragli, resto in partita con l’unico obiettivo: uscirne con un po’ di onore... o almeno con una buona scusa.

I cellulari? In un’altra stanza. Dimenticati. Perché in certi momenti, quelli veri, non servono notifiche, messaggi o schermi. Bastano delle carte, due risate, uno sguardo complice… e il tempo che si ferma, insieme.

Ogni tanto, spegnere tutto è il regalo più bello che possiamo fare a chi amiamo. Le connessioni più autentiche non hanno bisogno di Wi-Fi.

Spoiler: il "boomerone" anzi, il gen-x ha vinto. Per una manciata di punti. Ma il vero tesoretto lo ha vinto la serata: zero notifiche, cento risate e prese in giro. I cellulari? Ancora in un’altra stanza. E noi, a letto con il sorriso.

mercoledì 6 agosto 2025

Un filtro sporco, che nessuno ci ha insegnato a pulire

Non ci sono nato. Con le notifiche intendo. E con quell’imperativo silenzioso che ti spinge a controllare il telefono per messaggi, social, e-mail, lavoro, svago, informazioni, prenotazioni, acquisti… E ancora notifiche, notifiche, notifiche.

Ma quando è cominciato tutto?

Era l’autunno del 2009. A casa di amici mi pavoneggiavo con le e-mail sempre a portata di mano, grazie al mio fiammante BlackBerry Curve 8520 — quello col tastierino qwerty, per intenderci.

“Io le ricevo con la notifica push, mica devo andarle a scaricare...” dicevo, ignaro del piano inclinato su cui già mi ero adagiato. E su cui, lentamente, cominciavo a scivolare. Come una pelle d’orso. Morta.

Pochi mesi dopo, mio padre — più tecnologico di me, da sempre — mi parlava entusiasta di un’app che permetteva di messaggiare gratis con qualsiasi smartphone. Non solo tra quelli che avevano tanti tastini e il logo con la mora.

Il mese successivo, sul mio telefono c’erano le app di Facebook e Twitter che bippavano ogni due per tre.
Bevevo il caffè, ma avevo smesso di parlare col barista e con i soliti volti familiari.
Ero già disconnesso, rapito dallo scrolling compulsivo.

Era una novità. E io non facevo nulla per fermarla.
Anzi, mi sentivo moderno, aggiornato, in linea coi tempi, figo.
Ma anche… stanco.
E sotto sotto lo sapevo: qualcosa stonava.

Sono passati quasi quindici anni, ma quella sensazione di stress, di sovraccarico di informazioni, è ancora lì. Viva.
E il mio cervello si sentiva come un filtro sporco.

Non è mai passata.
Ho solo imparato a conviverci.
Ho fatto l’abitudine alla sovrastimolazione.
A contenere un filtro sporco, senza mai chiedermi davvero come pulirlo. O cambiarlo.

Non ti dico di spegnere tutto da un giorno all’altro, come ho fatto io (anche se, lo ammetto, è stato liberante).
Ma non ti capita mai, ogni tanto, di sentire il bisogno di una vacanza da quella cascata costante di bit che ti piove nella testa, ogni singolo giorno?

lunedì 4 agosto 2025

Un angolo da amare anche quando il mondo non ti vede

Tra le tante anime invisibili che orbitano attorno al Cupolone, c’è una donna che dorme sulla rampa disabili di Santa Maria in Traspontina.

È come se un committente anch’egli invisibile — forse annidato nella sua testa, nel cuore, o chissà dove — le avesse affidato una missione silenziosa: mantenere sempre fresco un piccolo omaggio floreale in un punto preciso della facciata della chiesa.

Ogni mattina, con la dedizione meticolosa di una vedova che lucida la lapide dell’amato, lei cura quell’angolo con una grazia ostinata.

Pulisce, rassetta, lava, risciacqua. E soprattutto, fa in modo che non manchino mai dei mazzolini di fiori freschi. Mai. Dove li prende se sta sempre lì?

Quando ritiene che sia tutto a posto, allarga il suo raggio d’azione: raccoglie lattine, bottiglie, resti lasciati dai pellegrini che, alleggeriti nello spirito, hanno abbandonato anche il rispetto.

Ed ecco che nasce un pensiero. 

Le donne, anche quando sono ferite al punto da non riuscire più a prendersi cura di sé, conservano comunque un angolo da accudire, da amare.

Questa invisibile, scesa dalla giostra della società per chissà quale indicibile dolore, continua a tenere in piedi quel pezzettino di mondo che, un quadratino alla volta, riesce a trasformare in "casa".

Nessun post, nessun like. Solo un gesto ripetuto, ogni giorno, che dà senso a un angolo dimenticato.

E se il senso di tutto fosse nello scegliere un angolo, piccolo ma nostro, da custodire con amore contro il disordine del mondo?

sabato 2 agosto 2025

L'uomo che disse no all'Apocalisse

È il 26 settembre 1983. Il Colonnello Stanislav Petrov, ufficiale dell’Armata Sovietica, è di turno al centro di comando incaricato di monitorare i dati inviati dai satelliti spia.

Il suo compito è chiaro: in caso di attacco, deve segnalare immediatamente l’allerta ai superiori, che avrebbero risposto con un contrattacco nucleare.

Alle 00:14, il sistema rileva qualcosa di agghiacciante: un missile balistico intercontinentale lanciato dal Montana (USA) e diretto verso l’URSS. Poi altri quattro. Tutti con la stessa traiettoria.

Petrov guarda i dati. Sa cosa dovrebbe fare. Ma non lo fa. Non si fida del sistema satellitare.

Più tardi racconterà: "Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione." E aggiunge: "Forse ho deciso così perché ero l’unico ad avere una formazione civile."

Petrov non trasmette l’allarme ai suoi superiori. E con quella decisione, salva il pianeta.

Ora chiediti: e se al suo posto ci fosse stato un militare addestrato a obbedire senza discutere? O peggio ancora… un’intelligenza artificiale?

Oggi sei vivo anche grazie al Colonnello Stanislav Petrov. Alla sua coscienza. Alla sua capacità di leggere la complessità, di interpretare i dati, di dar retta a quel quid impalpabile che viene chiamato in tanti modi (intuito, spirito...), che non si può misurare, ma che ha dato prova di poter salvare l'umanità.

Speriamo (e preghiamo se abbiamo fede) che i "Petrov" di oggi sappiano trovare dentro di sé quello stesso discernimento e coraggio, per evitare che un errore possa trasformarsi in una catastrofe senza ritorno.

venerdì 1 agosto 2025

Effatà: il messaggio che non ti aspetti sul silenzio digitale

📱 “Iperconnessi ma isolati”: più o meno così Papa Leone, mercoledì scorso, ha aperto l’udienza generale con una riflessione potente e attualissima sui social media.

Le sue parole arrivano dritte al punto:

"Viviamo in una società che si sta ammalando a causa di una “bulimia” delle connessioni dei social media: siamo iperconnessi, bombardati da immagini, talvolta anche false o distorte. Siamo travolti da molteplici messaggi che suscitano in noi una tempesta di emozioni contraddittorie..."

In questo caos digitale, cresce il desiderio di spegnere tutto, di chiudersi nel silenzio. Ma il rischio è di perdere anche il contatto con chi ci è vicino:

"Anche le nostre parole rischiano di essere fraintese e possiamo essere tentati di chiuderci nel silenzio, in una incomunicabilità dove, per quanto vicini, non riusciamo più a dirci le cose più semplici e profonde."

💡 E qui il Papa propone un’alternativa. Racconta di Gesù che si avvicina a un uomo muto. Non parla subito. Prima lo incontra, lo incontra davvero, lo tocca, lo ascolta.

"Gli offre prima di tutto una prossimità silenziosa, attraverso gesti che parlano di un incontro profondo: tocca le orecchie e la lingua di quest’uomo" e poi dice: "Effatà!" – Apriti.

Ecco il messaggio forte:

«Apriti a questo mondo che ti spaventa! Apriti alle relazioni che ti hanno deluso! Apriti alla vita che hai rinunciato ad affrontare!»
Perché chiudersi, in fondo, non è mai una vera soluzione.

🎧 Se il cellulare e i social ci stanno togliendo tempo, emozioni e incontri reali, trasformandoci in scrollatori seriali, forse è il momento di fare un passo indietro.

Non per sparire. Ma per riaprire il cuore. Alle persone, alla realtà, a Dio — se ci credi.

Perché siamo sempre connessi, ma ci incontriamo sempre meno.

🔌 E se andassimo contro corrente provando a... scollegarci un po’ per incontrarci davvero?

-§-§-§-

P.S. Qualunque sia il tuo credo, che rispetto, queste parole mi sono sembrate troppo vere per non condividerle.
📄 Fonte: https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/audiences/2025/documents/20250730-udienza-generale.html

martedì 29 luglio 2025

Cose che succedono mentre aspetti il verde

Una volta, quando ci fermavamo al semaforo, l’istinto era girare la testa e dare un’occhiata a chi si era fermato accanto.

Un sorriso, un'occhiata, magari un'occhiataccia se indugiavamo un po' troppo su un bel paio d’occhi femminili. Ma in ogni caso, c’era un contatto. Una connessione tra sconosciuti.

Oggi la sequenza è un’altra: scatta il rosso, freni, sblocchi lo schermo, abbassi lo sguardo, sparisci nel vortice sterile e scintillante del minischermo. E magari ti sorprendi se qualcuno — come me — strombazza quando il verde è già passato e tu resti lì, imbambolato.

E per un pedone che aspetta il suo turno? Stessa scena. Stesso capo chino...

Settantacinque anni fa lo scrittore americano Kurt Vonnegut scrisse una novella intitolata Harrison Bergeron.

Narrava un futuro distopico, in cui il governo controllava il libero pensiero stabilendo la libera uguaglianza. Chiunque desse segno di una maggiore abilità e intelligenza, doveva essere ricondotto nella media.

Come "normalizzare" il divergente? Lo si obbligava a indossare un dispositivo all'orecchio che emetteva un segnale acustico ogni venti secondi. Un segnale sempre diverso, talvolta interessante. L'obiettivo? Interrompere il pensiero prolungato affinché non traesse profitto dalla propria intelligenza.

Interrompere il pensiero prolungato…

Interrompere. Il pensiero. Prolungato.

Era il 1961. Tre generazioni fa. All’epoca sembrava solo un innocuo racconto di fantascienza.

Pensate.

Un dispositivo sempre con noi... Che interrompe il pensiero prolungato.

Vi ricorda qualcosa?

Forse la fantascienza era solo cronaca in anticipo. Oggi non ci serve un tiranno. Basta una distrazione attraente e breve, sempre più breve. Non imposta da un dittatore, ma offerta da multinazionali fameliche. E così seducente da essere scelta, e scelta e scelta, fino a quando non riesci più farne a meno.

Rialza lo sguardo. Riconquista qualche minuto di attenzione. È il primo passo per riprenderti tutto il resto.

lunedì 28 luglio 2025

A piede libero. O quasi

San Pietro, ore otto (o giù di lì): il degrado cammina a piedi parzialmente scoperti, osando prendersi tutta la scena.

Pensavo fossero estinti ma ne ho visti più di un paio di esemplari, oggi.

Brutti come un dispiacere, sono tornati…

I sandali coi calzini.

Avanzavano senza vergogna, come una coppia mal assortita: Mariangela Fantozzi al braccio del Grinch. Ogni passo era un oltraggio acustico: squish, squelch, squish, squelch, squaccheravano ciabattanti come se il disagio avesse trovato un ritmo.

Abbiamo mandato giù i ragazzetti coi pigiamini abbinati, gli shatush, le catene al portafoglio, le ciabatte con la pelliccia. Ma i sandali coi calzini sui piedi sudati no. Dai...

In casi straordinari di necessità e urgenza il Governo emette decreti legge. Cosa c'è di più necessario e urgente che rendere illegale un piede sudato che sgnacchera impunemente in un sandalo brutto come la morte?

E che c'entrano sandali e calzini con social e smartphone (con sui rompo sempre le scatole in questo blog)?

Entrambi sono nati per semplificare ma se non usi la testa sono il primo passo verso il disastro.

domenica 27 luglio 2025

Ciuffi di prezzemolo e cieli senza aerei

È passato più di un mese e mezzo da quando ho abbandonato i social e vivo con il cellulare della nonna di Cappuccetto Rosso. Una piccola reliquia, che suona solo quando serve, e tace volentieri.

Me ne sono accorto oggi, della libertà guadagnata. Mi sono affacciato al balcone e lo sguardo si è perso tra le curve morbide dei campi, che ondeggiavano lievi come fossero seta.

Non ho avuto l’istinto di scattare una foto. Mi sono perso lì, permettendo a ciò che vedevo, sentivo, annusavo, di toccarmi per davvero. 

La bolla africana ha ceduto il passo al ponentino, tornato a soffiare piano, con pudore, come chi rientra a casa dopo lunga assenza. Quanto è bello sentirlo di nuovo sulla faccia e sulle braccia.

E contemplare il paesaggio è tornato ad avere senso. Dopo quasi vent’anni che vivo qui, ancora non riesco ad abituarmi a tanta bellezza.

Le balle di fieno, arrotolate dalla fatica paziente del contadino, punteggiano metà campo come pianeti su un tappeto d’erba. Gli alberi, da qui, sembrano ciuffi di prezzemolo che si lasciano cullare dal vento.

Il cielo è sgombro. Nessun aereo a graffiarlo, nessuna rotta da e per Fiumicino. Solo nuvole bianche, leggère come pensieri che risorgono liberi, non più soggiogati da immagini scelte da altri, che scorrono su un minischermo.

In fondo, forse, basta questo: una domenica pigra, un campo, un vento buono, e il silenzio che finalmente ho reimparato ad ascoltare.