Uno dei problemi più tristi e diffusi di oggi è la solitudine.
Salvo poche eccezioni virtuose, abbiamo perso quelle forme naturali di socialità che un tempo tenevano insieme la comunità: la piazza, la parrocchia, il circolo culturale o politico, la comitiva al muretto. Oggi tutto questo è sempre più raro o relegato alla provincia.
I social hanno accelerato questo distacco, illudendoci di essere un’alternativa moderna – e persino migliore – agli incontri reali.
L’ho provato sulla mia pelle. Passavo i momenti vuoti scrollando le belle copie delle vite degli altri, e mi sentivo ancora più solo.
Mi illudevo che il gruppo Facebook di quartiere fosse indispensabile per coordinare le attività dell’associazione locale. Ma col tempo abbiamo smesso di vederci davvero. E smesso anche di fare cose utili.
Pensavo che i social fossero strumenti provvidenziali per mantenere viva la relazione con quegli amici che vivevano all'estero, quel compagno di classe ritrovato dopo anni.
Pensavo male perché quello che appariva come un mezzo di comunicazione, era un ulteriore muro bello, colorato e pieno di finestre finte, che si frapponeva tra noi. Quei like, quelle faccine inviate ogni tanto, finivano per rendere ancora più evidente il vuoto. Non avevamo più molto da dirci.
Poi abbiamo iniziato a risolvere tutto via WhatsApp: si discute, si litiga, si parla, si sparla. E si passa metà del tempo a cercare di ricomporre malintesi nati proprio lì, tra i messaggi.
Ma a meno che tu non sia Manzoni o Montale, nessuno riesce a far passare davvero un’emozione, uno sguardo, o anche solo una sfumatura di senso in un messaggio. Eppure pretendiamo di risolvere la vita scrivendo nelle chat.
“Quel messaggio aveva un tono…” – è la frase che sento più spesso. Il tono in un messaggino? Il tono lo cogli solo quando parli. Meglio ancora, quando guardi in faccia qualcuno.
O quando lo tocchi. A volte basta una mano amichevole sulla spalla, senza aggiungere altro, per sistemare tutto.
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