domenica 19 ottobre 2025

L'emozione della forza gentile

Stanotte ho sognato che un uomo prendeva a pugni una donna sul balcone di fronte a casa mia.

I femminicidi indignano e sconvolgono — le donne, certo, ma anche gli uomini per bene. Quelli che, come credo e spero, sono la maggioranza silenziosa: uomini che non fanno rumore, ma che davanti a tanta violenza provano vergogna e dolore.

Nel sogno sentivo le urla della donna, e poi ho visto l’uomo afferrare un coltello. Che fare? Sono corso in cucina, ho preso alcune bottiglie di vetro e ho cominciato a lanciarle, una dopo l’altra, gridando alla donna di difendersi, di allontanarlo.

Mi sono svegliato di soprassalto. Non saprò mai se, in quel mondo sospeso del sogno, si sia consumata l’ennesima carneficina o se una bottiglia sia arrivata dove doveva.

Ci penso ancora. Questi uomini non sono stati educati alla bellezza di mettere la propria forza al servizio della donna che amano.

Ricordo mio padre: per lui era naturale occuparsi dei lavori pesanti. Se lasciavo a mia madre un peso di troppo, bastava uno sguardo — che voleva dire: ragazzo, quello spetta a te — per farmi intervenire e sollevarla.

Oggi, quando mia moglie mi chiede di aprire un barattolo o di prendere qualcosa di troppo pesante, lo faccio con gioia. Con quell'espressione, un po’ ebete ma sincera, di chi si sente l’eroe della propria principessa.

Sono cresciuto con l’esempio di un padre che non ha mai alzato la voce, né tantomeno le mani, su mia madre, di un uomo che non si sentiva meno maschio se preparava la cena dopo che mamma aveva avuto una giornata di lavoro sfiancante. Sento ancora l'odore e il rumore del suo spezzatino che sobbolliva a fuoco lento...

E mi convinco sempre di più che ciò che manca, oggi, è proprio questo: l’esempio. L’educazione affettuosa e ferma dei padri verso i propri figli maschi. Ma anche la capacità, come società, di non essere indifferenti.

Forse un saluto in più, una chiacchiera tra vicini, un gesto di attenzione che vada un po' oltre il "mi faccio gli affari miei", possono aprire porte. E quelle porte aperte, nei momenti di pericolo, potrebbero fare la differenza.

Se solo coltivassimo di più le relazioni umane, forse - chissà... - sarebbe più difficile per un uomo violento agire certo che il silenzio e la paura degli altri gli permetteranno di arrivare fino al gesto più vile del mondo.

venerdì 17 ottobre 2025

Se nonna mia vedesse gli smombies...

Leggo che due giorni fa una turista è finita in un canale di Venezia seguendo le indicazioni di Google Maps.

Non mi sorprende l'app — come tutte le cose fatte dall'uomo, può sbagliare — quanto il fatto che la tipa l'abbia seguita così pedissequamente da sospendere del tutto il cervello. Come se il buon senso e la capacità di supervisione e verifica fosse un optional da disattivare.

Caso isolato? Lavoro in una zona turistica e almeno una volta al giorno qualche visitatore distratto mi finisce addosso, immerso nel suo telefono, completamente rapito dallo smartphone.

Mi torna in mente nonna Fernanda. Ricordo quando, con un fazzoletto bagnato, rimandava indietro il bernoccolo che mi ero fatto sbattendo contro un palo della luce e mi diceva: "A bello de nonna, che volevi vede si era più duro er palo o la capoccia?"

Oggi sarebbe il suo compleanno… compirebbe inverosimilmente 118 anni, eppure le sue frasi continuano a ronzarmi nelle orecchie ogni giorno, come un mantra di buon senso popolare.

"Aò, o magnate o nun magnate, io ve manno via pe' satolli!" — ci diceva quando ci facevamo troppi scrupoli calorici davanti alle sue cenette straricche. E la sua concezione di dignità personale era chiara e ferrea: "Si t'abbassi troppo te se scopre er culo!"

Forte ma affettuosa, dignitosa e un po’ filosofa, me la immagino oggi, osservare sorniona gli smombies di questa generazione: ragazzi con lo sguardo fisso sullo schermo, incapaci di attraversare la strada senza rischiare la vita.

E scuotendo la testa, con quel sorriso di chi sa tutto, direbbe: "A regazzì, si freni solo quanno sbatti poi nun piagne si te spunta un ficozzo in fronte."

E non vale solo per le strade ma anche per la vita.

mercoledì 15 ottobre 2025

Non ho niente da fare? No, ho qualcuno per cui farlo

Qualche giorno fa ho avuto la gioia di festeggiare un evento speciale di un parente a me carissimo — uno di quelli che, purtroppo, la frenesia della vita mi concede di vedere troppo di rado.

Lottiamo tutti col tempo che sembra diventare sempre più un bene di lusso...

Un paio di giorni prima, mentre curiosavo tra gli scaffali di un negozio cinese, la vista di un semplice rotolo di carta per scontrini — sì, proprio quello dei registratori di cassa — ha risvegliato in me una creatività che da settimane sonnecchiava pigra in un angolo.

Così l’ho comprato. Insieme a una scatola di cartone per contenerlo e a due pennarelli, uno blu e uno rosso.

Tornato a casa, pensando ai festeggiati e alle loro mille sfumature, ho iniziato a scrivere auguri scanzonati e affettuosi, riempiendo metri e metri di carta. Tanti, davvero tanti.

Poi ho arrotolato tutto con pazienza, infilando il lungo rotolo nella scatola, in cui avevo praticato una fessura da cui spuntava l’inizio dei miei auguri infiniti.

Durante la festa, i protagonisti hanno iniziato a srotolare quella striscia interminabile tra risate, emozione e curiosità. Tutti si divertivano. Tutti, tranne qualcuno che, con l’aria di chi non vuole passare inosservato, ha commentato più volte: «Eh, certo che non hai proprio niente da fare tu, eh?»

Da sempre mi capita di incassare le svalutazioni di chi non sa riconoscere un gesto gratuito e sincero, una botta di creatività dedicata a chi vuoi bene. In passato ho anche permesso a frasi del genere di smontarmi e di avvilire i miei entusiasmi creativi. Un tempo mi ferivano. Ora non più. O meglio, non più di tanto.

Per non rovinare l'atmosfera ho taciuto, ma dentro di me pensavo - e lo penso ancora - che da padre di famiglia che lavora e fa mille altre cose, il tempo non ce l'ho, ma lo trovo per le persone a cui tengo.

Alla fine, non è il tempo che manca, ma la voglia di usarlo per qualcosa che non si può conteggiare e accumulare.

Vale davvero la pena fermarsi un po', togliere tempo a qualche cosetta meno urgente, magari ai minischermi perennemente accesi, e dedicarlo alle persone a cui tieni davvero.

lunedì 13 ottobre 2025

Controvento, con un giornale in mano

Ne ho avvistato uno, stamattina presto, seduto in un bar davanti a un caffè fumante.

Relativamente giovane - sui trentacinque, quarant'anni - con sguardo sinceramente interessato, un uomo leggeva un giornale cartaceo.

Navigava con gli occhi tra colonne e fondo pagina con sguardo attento e calma attenzione. Ogni tanto si soffermava un po' su un articolo, per indugiare più a lungo su un altro che gli appariva più interessante.

Ed era in quel momento che quella schietta curiosità, sembrava essere del tutto appagata.

Il paragone con gli sguardi imbambolati di tutte le persone che gli stavano attorno mi è venuto spontaneo.

Attorno a lui, la consueta processione mattutina di corpi presenti e menti altrove. Tutti chini, come piegati da un peso invisibile: quello dello schermo.

Il pollice che scorre, l’indice che tocca, la fronte che si piega in un’espressione neutra. Nessuna sorpresa, solo un flusso di immagini che passa e si dissolve prima ancora di essere compreso. E nessuno sguardo soddisfatto come quello del lettore che osservavo.

Questi, sembrava appartenere a un'altra dimensione, più felice — o forse semplicemente a un’altra idea di attenzione. Leggeva per capire, non per farsi trascinare. Non consumava notizie: le masticava. Ogni riga gli chiedeva tempo, e lui glielo concedeva.

Mi sono chiesto quando abbiamo smesso di leggere per davvero. Quando la rapidità ha preso il posto della profondità, e l’informazione è diventata rumore di fondo. Ci diciamo “connessi”, ma sembriamo sempre più isolati: ognuno dentro il proprio schermo, convinto di osservare il mondo, mentre in realtà ne vede solo il riflesso limitato e filtrato da un algoritmo. Che ci guadagna...

Lui, invece, con il suo giornale cartaceo pareva avere un contatto più autentico con la realtà. Non era solo un gesto nostalgico — era un atto di resistenza, di esistenza.

In una folla di dita che scorrono tra schermi accesi e occhi spenti, lui era la felice anomalia che leggeva, capiva, pensava.

giovedì 9 ottobre 2025

La libertà? Forse l’hanno messa in modalità aereo. Forse.

In giro si vedono sempre più ragazzi con le cuffie.

Non parlo degli auricolari che usiamo un po’ tutti, ma di quelle grandi cuffie che ricordano quelle degli stereo anni ’80. Solo che oggi sono qualcosa di più.

Molti liquidano il fenomeno con un’alzata di spalle: “sono i soliti adolescenti che si isolano”. Forse.

Altri dicono che lo facevamo anche noi quando andavamo in giro con il walkman e le cuffiette. Ci creavamo una nostra personale colonna sonora di una vita che percepivamo come imposta. Forse lo fanno anche loro. Forse.

Ma secondo me c'è di più.

I loro sguardi bassi ricordano i nostri, quando ci estraniavamo con Baglioni o Michael Jackson a palla nelle orecchie. Ma più li osservo, più noto che in quei volti c'è qualcosa di diverso.

Vedo un'ansia e una paura che noi non avevamo. Sembrano in apnea.

Come se quelle cuffie fossero una bombola d’ossigeno, necessaria per resistere fuori dalla rete, giusto il tempo di tornare online appena arrivano a destinazione, per ubbidire all’urgenza di fissare lo schermo, di scrollare, di rituffarsi nel flusso.

E' solo la mia impressione.

Intanto, però, gli studi parlano chiaro: cresce in modo vertiginoso il fenomeno del peer phubbingignorare chi ci sta accanto per guardare il telefono —, direttamente collegato alla dipendenza da smartphone (fonte).

E così, mentre il mondo reale scorre accanto a loro — fatto di odori, di sguardi, di silenzi e di incontri — loro restano sospesi in una realtà filtrata, levigata, dove il peso dello spazio e del tempo sembra sospeso.

Non si isolano per scelta, ma perché la rete li trattiene dolcemente, come una ragnatela invisibile e attraente. Sono connessi a tutto, ma disconnessi da sé stessi.

La libertà? Forse l’hanno messa in modalità aereo. Forse.

lunedì 6 ottobre 2025

Mentre il caffè rincara… La lezione di Antonia, Fernanda e Bruna

Adesso che il prezzo del caffè sale, tutti si lamentano. Eppure è da tempo che i numeri crescono silenziosi, che i prezzi lievitano, e noi con loro — a contare, a togliere, a fare spazio.

C’è chi, come me, ha la fortuna di un posto fisso, ma sente comunque il bisogno di ridimensionare le spese. E poi ci sono gli altri — tanti, sempre di più — amici, volti cari, che vivono la sfida della terza settimana, non più della quarta.

Ognuno reagisce con ciò che ha: chi risparmia, chi rinuncia, chi si lamenta. E poi ci sono quelli che non ce la fanno, che si lasciano cadere nel buio, o compiono gesti da cui non si torna.

Sento che ci stiamo avvicinando, passo dopo passo, a un tempo che somiglia a quello dei nostri nonni. Non c’è guerra - non ancora per lo meno - ma c’è la stessa fatica, la stessa incertezza. Con una differenza: loro avevano gli altri. Noi, invece, siamo diventati più soli, più chiusi, dissipati in schermi che sono fatti per connettere ma che dividono.

Da quando ho saputo che un caro amico ha perso il lavoro, quel pensiero non mi abbandona. Come sempre, quando l’inquietudine mi visita, mi rivolgo a Dio. Ho aperto la Bibbia, e la risposta è arrivata come un respiro conosciuto:

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15)

A quelle parole il mio pensiero è ruzzolato all'indietro di sessant'anni, ai racconti delle mie nonne. A quando la solidarietà non si diceva, si faceva. A quando, pur stando peggio, si trovava sempre un modo per volersi bene.

Rivedo Antonia, mia nonna materna, classe 1916. Non era una gran cuoca, né una santa, ma la pasta la tirava a mano, e ci metteva sempre due uova in più. Servivano a riempire un piatto per la signora del piano di sotto, che non arrivava a fine mese.

Rivedo Fernanda, la nonna paterna, nata nel 1907, pantalonaia, la stessa voce asciutta e dolce della Sora Lella. Quanto mi manca! Per la sua amica ebrea Letizia, fiaccata dalle leggi razziali e dalla guerra, cuciva senza chiedere nulla.

E quei pochi soldi guadagnati la notte, cucendo orli a lume di lampada, li infilava nelle tasche dei pantaloni che restituiva a Letizia e a suo marito Settimio.

E poi c’è Bruna, la nonna di mia moglie. Consapevole del privilegio di fare le pulizie in casa di un ministro, imparò da sola ad andare in bicicletta per attraversare Roma e condividere quel litro d’olio o quel sacco di farina in più, coi parenti in difficoltà.

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15)

Non è forse questo ciò che fecero i nostri nonni? Non è forse questo, ancora oggi, il modo più vero per resistere, per affrontare la crisi che ci logora e che non possiamo controllare?

Forse la risposta non è solo nei numeri, nei tagli, nei bilanci o in una schermata di Gemini o ChatGPT. Forse la strada più autentica è tornare lì, dove tutto si teneva in piedi grazie a un gesto semplice: un piatto condiviso, un piccolo sacrificio, un atto d’amore.

sabato 4 ottobre 2025

Non sono invisibile!

Sala d’attesa del dentista. Seduti, in silenzio cinque adulti fissano i cellulari imbambolati e, una bambina sui quattro anni osserva attenta. Percepisco il suo sguardo curioso e indagatore e mi pare quasi di sentire i suoi pensieri...

"Le sedie sono grandi, belle. Le gambe che non toccano il pavimento: penzolano e dondolano; forte! Adesso però mi annoio…

Uno, due, tre, quattro, cinque adulti contando mamma, tutti silenziosi, tutti con la testa chinata su quei rettangolini luminosi che stringono in mano. Nessuno mi guarda. Nessuno sorride.

Quel signore con la barba ogni tanto mi guarda ma poi torna anche lui a fissare il cellulare. Dev'esserci davvero qualcosa d'importante lì dentro se sono tutti così presi… 

Io invece guardo la mamma. Anche lei col telefono tra le mani, e lo muove col pollice, su e giù, su e giù, come se fosse una magia che non finisce mai. Voglio anch’io quel telefono. Voglio che mi guardi.

Forse una strega cattiva ha fato un incantesimo che li tiene tutti con gli occhi fissi su quel coso? Ma io mi annoio...

«Mamma, me lo dai?»

Lei non risponde. Continua a guardare giù. Io insisto. Tiro la sua manica, faccio la voce più alta. Mi dice solo: «Te lo do quando smetti di chiederlo».

Ci provo. Chiudo la bocca forte, mi mordo la lingua. Conto nella mia testa: uno… due… tre… Ma dopo poco sento un peso dentro, come un nodo. Non ce la faccio più.

«Mamma, dai… posso?»

Lei non mi guarda. Non mi guarda mai. E il tempo passa… Faccio i capricci, mi lamento, piagnucolo. Non so che altro fare. Forse se mi arrabbio un po’ mi sentirà. Ma niente. Solo il dito che continua a scorrere sullo schermo. E tutti fissi, in silenzio… Che ansia… 

Il tempo non passa. Forse sono passati tantissimi minuti, forse ore. Voglio anch'io quel telefono! No! Voglio gli occhi di mamma. Voglio che mi guardi e mi dica che mi vede. Voglio il suo sorriso, quello che fa sentire caldi dentro. Non sono invisibile!

Ma quegli occhi restano lì, fissi, lontani da me. E io resto invisibile."

giovedì 2 ottobre 2025

Si sogna...

Ho chiesto a ChatGPT di generare un ipotetico testo di legge che stabilisse età minima e una licenza chiedendo a lei di stabilire i requisiti che occorrerebbe avere per un utilizzo sicuro di tali strumenti.

Questo è il risultato.

§§§

Patente Digitale per l’Uso di Smartphone e Intelligenza Artificiale

Art. 1 – Età minima e abilitazione per l’uso di smartphone e intelligenza artificiale.

L’uso di telefoni cellulari di tipo smartphone e di sistemi di intelligenza artificiale è consentito esclusivamente a persone che abbiano compiuto sedici anni di età.

L’utilizzo è subordinato al superamento di un esame di abilitazione, volto a verificare la conoscenza e la capacità di impiego sicuro e responsabile dei dispositivi e dei servizi digitali.

L’esame di abilitazione deve accertare almeno i seguenti requisiti:

a) comprensione dei rischi connessi alla privacy e alla sicurezza dei dati personali;

b) capacità di riconoscere contenuti inappropriati, ingannevoli o pericolosi;

c) conoscenza delle regole di comportamento responsabile online e nella comunicazione digitale;

d) capacità di utilizzo sicuro delle applicazioni di intelligenza artificiale, inclusi strumenti di assistenza, automazione e interazione conversazionale;

e) consapevolezza delle implicazioni legali ed etiche connesse all’uso degli strumenti digitali.

L’esame può essere erogato da enti pubblici o accreditati, secondo modalità stabilite dal Ministero competente.

§§§

E... Niente… Si sogna. 😅

martedì 30 settembre 2025

Ho la soluzione (ma non vi piacerà)

Consueta passeggiata mattutina prima del lavoro.

Ancora mezzo addormentato e immerso nei pensieri, sobbalzo quando un monopattino mi sfreccia a pochi millimetri dal gomito e dal muro.

«Oh!» mi scappa istintivo.

«Ma che vuoi? Abito qui!» ribatte un cinquantenne con occhiali firmati,  in giacca e cravatta, ma decisamente male equipaggiato in fatto di educazione.

«E quindi? Ti legittima forse a passare sul marciapiede rischiando di investire un pedone?»

La risposta che mi lascia entrando nel portone non la riporto per decenza, ma una certezza ce l’ho: oltre che maleducato, quel tizio, ancorché trendy era del tutto inadeguato a usare un monopattino.

Ed ecco il punto. Hanno messo in circolazione mezzi potenzialmente pericolosi, senza regole né patente. Il risultato? Ogni giorno troppi feriti e, purtroppo, anche qualche morto.

È la stessa storia successa con internet sul cellulare. Abbiamo consegnato uno strumento di comunicazione potente ma potenzialmente pericoloso per noi e per gli altri, senza regole né licenze né formazione. E oggi ci troviamo con la generazione più fragile mai esistita.

E ci stiamo ricascando con l’Intelligenza Artificiale.

La soluzione? Una sola: una licenza, una sorta di patente da conseguire con un’adeguata preparazione, non prima dei sedici anni.

Solo così i ragazzi non verrebbero privati di ciò che rende sana l’infanzia: gioco fisico, libertà, contatto reale, esplorazione.

Lo psicologo Jonathan Haidt, nel suo libro "La generazione ansiosa", lo dice chiaramente: ciò che prima era esperienza reale – gioco spontaneo, rischio, esplorazione, contatto fisico, avventura – è stato sostituito da schermi e presenza virtuale costante.

Schermi che hanno rubato le esperienze più belle dell'infanzia e dell'adolescenza dei nostri figli. Ditemi che non è vero...

E gli effetti si vedono: dal 2011 in poi ansia e depressione sono esplosi, così come disturbi del sonno, attenzione frammentata, dipendenze, isolamento sociale e molto altro. Una fragilità generalizzata, un indebolimento diffuso dimostrati da ricerche e dati (se volete approfondire cliccate👉 qui ).

Allora vi chiedo: vi sembra ancora così astrusa l’idea di una patente per cellulari e Intelligenza Artificiale?

sabato 27 settembre 2025

In realtà stai cercando qualcosa. Chiediti cosa

Padre Giuseppe, un anziano francescano viterbese, è stato una figura decisiva nell’indirizzare la mia giovinezza verso il bene.

Alcuni dei suoi consigli, tanto semplici quanto vitali, continuano ancora oggi a ronzarmi nella mente. E, meno male, aggiungerei.

Ricordo bene un giorno in cui mi parlò della necessità di prestare attenzione a ciò che guardiamo, perché ogni immagine nutre la nostra anima.

"Un tramonto, un bambino che gioca, un quadro, gli occhi della donna o dell'uomo amati – mi diceva padre Giuseppe – ma anche una scena violenta, un nudo sfacciato o, peggio ancora, quell'uso e abuso stolto e consensuale del corpo altrui che viene chiamato pornografia, passano dagli occhi alla mente.

"Anche se a te non sembra – continuava il buon francescano – ogni immagine si fissa nella memoria e prima o poi la fantasia, la 'pazzerella' che risiede nella tua testa, andrà a pescare proprio lì per inventarsi qualcosa. Non è male, è nella sua natura."

E aggiungeva: "Nella memoria, la 'pazzerella' prenderà ciò che trova, quello che noi abbiamo permesso di entrare con la nostra libertà, e comincerà a inventarsi di tutto.

E, a seconda di come ti sarai nutrito, dalla tua mente nasceranno pensieri di pace, di gioia, di amore, azioni creative e progetti significativi oppure pensieri di angoscia, di disagio, pensieri distruttivi e azioni tanto quanto…"

Mi invitava a custodire lo sguardo con amore e rispetto, verso me stesso e verso gli altri, in particolare verso le donne. "Scegli bene ciò che guardi e come lo guardi se vuoi vivere nella pace!"

Questi consigli sono stati per me un nutrimento essenziale. Nella misura in cui li ho accolti e vissuti con coerenza, mi hanno reso un uomo sereno, forte, in pace. Persino felice. Quando sono riuscito a viverli hanno corretto e armonizzato le mie inclinazioni peggiori – quelle che, in un modo o nell’altro, portiamo tutti dentro – e di questo sarò sempre grato a padre Giuseppe.

Ma veniamo a oggi.

Non c’è più un buon padre Giuseppe che ci ricorda di vigilare sullo sguardo, che sia vago o insistente. Eppure, qualunque scusa possiamo inventare, resta una verità: tutte le immagini che assorbiamo senza difese si fissano nella memoria. Alla "pazzerella" che abita la nostra mente sembrerà di vivere in un tesoro inesauribile, felice come una formica in un barattolo di zucchero.

Ma anche traboccante di strumenti per produrre in noi grandi pasticci.

Oggi, soprattutto sui social, le immagini non sono casuali: vengono scelte da un algoritmo che si nutre di ciò che attira istintivamente il nostro sguardo. Così, invece di educare e incanalare le debolezze dell’animo umano – che tutti abbiamo, anche i figli più buoni e obbedienti – queste vengono favorite e amplificate fino a farci sfuggire la cosa di mano.

E allora pensiamoci, quando vediamo i nostri giovani infelici, isolati, o addirittura intrappolati in situazioni più grandi di loro, che forse gran parte di colpa è nel non aver insegnato loro a custodire lo sguardo.

Quanto sarebbe rivoluzionario scegliere di farlo cominciando a dire qualche no?

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P.S. Dopo aver finito il post mi è venuto in mente un altro consiglio di Padre Giuseppe. "Quando sei in giro vaghi con lo sguardo, ti sembra che non stai cercando niente. In realtà, che te ne accorga o meno, stai cercando qualcosa. Chiediti cosa."

Oggi potrei sostituire quel "quando sei in giro" con - quando scrolli un'immagine dietro l'altra per ore... ti sembra che non stai cercando niente; in realtà, che te ne accorga o meno, stai cercando qualcosa. Chiediti cosa.

giovedì 25 settembre 2025

Il fascino del tempo che gli altri chiamano brutto

"Che tempo fa?" – "È brutto!"

L’ho sentito dire piu volte ultimamente, eppure non sono d’accordo. A me piace.

Mi sono piaciute le ultime giornate piovose, così come quel freschetto mattutino che mi ha spinto a tirare fuori dall’armadio un giacchetto che non indossavo da aprile.

Il tempo, in realtà, non è né bello né brutto: è il nostro sguardo, il nostro stato d’animo, a definirlo.

E poi, abbiamo a disposizione mille termini per descriverlo, ma “brutto” – almeno quando non fa danni – non è mai quello che userei per una giornata uggiosa come quella di ieri.

Mi piace l'espressione “tempo da lupi”, per esempio: racchiude in sé pioggerella fitta, freddo pungente, alberi spettinati dal vento e la voglia di rintanarsi, abbozzolarsi in una coperta e osservare tutto quel movimento dalla finestra.

Mi affascina anche la parola “acquazzone”. Non mi spaventa; anzi, evoca un energico lavaggio generale che porta via strati di sporcizia cittadina accumulati nei mesi.

Se non fosse chiaro, adoro la pioggia. Mi ha incantato l’arcobaleno a tutto sesto di ieri, poco prima del tramonto, che ha squarciato il cielo per due minuti, per poi scomparire come se nulla fosse.

E tutto questo mio godermi il tempo è stato possibile grazie al silenzio che ho scelto: tre mesi abbondanti senza social, poche notifiche e tanto spazio per osservare, ascoltare, vivere. C’è chi lo chiama minimalismo digitale; io lo chiamo libertà riconquistata. E non vi rinuncerei nemmeno se mi pagassero bene per riaprire i miei account social.

Senza il rumore costante del mondo digitale, ogni goccia, ogni soffio di vento, ogni arcobaleno fugace diventa un piccolo miracolo, intatto e personale, che non ha bisogno di like perché basta a se stesso, che non sente più l'urgenza di essere fotografato e postato e che nessuno può cancellare o misurare se non io.

lunedì 22 settembre 2025

Il business dell’odio: chi guadagna mentre ci arrabbiamo online

In questi giorni si parla tanto di business dell'odio.

Non voglio entrare nelle polemiche politiche ma non posso non condividere le riflessioni che questo, chiamiamolo dibattito, sta suscitando in me.

Online pare che prevalgano solo reazioni di pancia, indignazioni aspre, insulti gratuiti, etichette offensive affibbiate in un contesto in cui l'ascolto, il dibattito e il confronto anche su posizioni del tutto opposte sembrano scomparsi completamente.

E il problema è che queste tendenze sono ormai così diffuse e radicate da travalicare la rete, generando quei fatti di cronaca violenta che i media ci raccontano ogni giorno.

Sfogliando qualche libro e approfondendo la questione, ho trovato dichiarazioni chiare, provenienti da fonti certe, che spiegano dove tutto questo è nato e perché.

Frances Haugen, che per anni è stata una specialista in algoritmi per Google, Pinterest e altre piattaforme, ora afferma con coraggio:

«I miei documenti mostrano che gli algoritmi basati sull’engagement promuovono contenuti estremi, divisivi e di polarizzazione — perché generano più tempo passato sulla piattaforma e quindi più introiti per Facebook.»

In questa affermazione è ancora più netta:

«Facebook ha messo in piedi un sistema di incentivi che spinge le persone a produrre contenuti arrabbiati, polarizzanti, divisivi, perché ottengono più distribuzione.»

Si potrebbe liquidare tutto come il risentimento di un’ex dipendente scontenta che si toglie qualche sassolino dalla scarpa? Forse. Ma vale la pena considerare anche le parole di Sean Parker, cofondatore di Napster e primo presidente di Facebook, rilasciate a noti giornalisti statunitensi:

«Il pensiero che ha guidato la creazione di queste applicazioni, Facebook essendo la prima, era: "Come possiamo consumare il più possibile del tuo tempo e della tua attenzione conscia?"» (In un'intervista di Mike Allen — Axios, 2017)

«È un loop di feedback di validazione sociale... esattamente il tipo di cosa che un hacker come me avrebbe creato, perché stai sfruttando una vulnerabilità nella psicologia umana.» — The Guardian, 2017

«Gli inventori — io, Mark [Zuckerberg], Kevin Systrom su Instagram, tutte queste persone — lo sapevano consapevolmente. E l'abbiamo fatto comunque — CBS News, 2017

Se chi ha creato queste piattaforme ammette che i loro algoritmi premiano rabbia, indignazione e polarizzazione (quindi l'odio) per fare soldi, allora forse è il momento di chiedersi: quanto della nostra attenzione vogliamo mettere gratuitamente al servizio dell'odio e del loro guadagno?

Ci sei dentro anche tu, anche se passi ore a scrollare cani adorabili, hobby innocui, ricette gustose e influencer alla moda. Indipendentemente dall'uso, è lo strumento che è stato creato per sfruttare l'odio e guadagnarci sopra.

Ridurre l’uso dei social — o abbandonarli del tutto, come ho fatto io — non significa isolarsi, ma riprendere il contatto con la propria mente e con le proprie emozioni.

Solo così potremo allentare la morsa della polarizzazione, dell’indignazione e dell’odio, non solo online, ma anche nelle news, nelle strade e nella politica.