Come ogni mattina, mi concedo quella mezz’ora di quiete, seduto sotto una colonna di marmo, prima che la canicola renda impossibile persino pensare di uscire.
I nuvoloni neri che hanno devastato il nord Italia sono arrivati fin qui, ma sembrano incapaci di scaricare un po’ di pioggia rinfrescante.
«'Etta abba, chelu, chi cust'annu semus sididos. 'Etta abba ei amus a ballare che indianos. 'Etta abba frisca commo, 'etta abba, chelu.»
Così cantavano i Tazenda, evocando la sete di pioggia nella Sardegna assetata. Un tempo ci sembrava lontana, oggi è diventata la regola.
Nuvole bianche e grigie d’alta quota si mescolano a quelle più scure e basse, che sfrecciano veloci sopra il Cupolone. Le folate di vento annunciano un cambiamento, ma il termometro non scende comunque sotto i ventisette gradi, nonostante l’ora.
Una volta avrei scattato una foto, girato un video, condiviso tutto di fretta mendicando un’occhiata distratta che dopo cinque secondi avrebbe dimenticato la scena a favore di un'altra.
Oggi mi godo ogni cosa con calma. Non c’è più l’urgenza di guardare in basso, se non per raccontare, con le parole, ciò che vedo, sento… e assaporo ancora di più.
E scrivo, come facevo una volta, per rallentare, e per ritrovarmi tra i vicoli di pensieri un po' aggrovigliati. Forse qualcuno lo leggerà, forse no. Va bene così.
Sento il vento sulle braccia e sul viso. Con la testa appoggiata alla colonna, osservo due suore che ridono a crepapelle. E viene da ridere anche a me.
Un ragazzo passa con le cuffiette alle orecchie e la testa bassa. Indovinate cosa sta contemplando?
Un anziano prete cammina con passo lento: un ombrello in una mano, il rosario nell’altra. Due turisti brasiliani si chiedono dove sia "u Vacicanu", che si staglia proprio davanti a loro.
Il vento continua a carezzarmi le braccia e la faccia, alleviando la pesantezza del caldo. Mi sento vivo. E, per un attimo, anche più sereno.
Quanta autentica normalità come questa, mi perdevo, per contemplare un rettangolino di plastica pieno di fuffa colorata?
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